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 2009  settembre 19 Sabato calendario

DAL NOSTRO INVIATO


SHINDAD (Afghanistan) – La culla di Wakil è un’amaca agganciata a due bastoni incastrati tra il pavimento di terra battuta e il muro rivestito di pa­glia e fango. I «pannolini» del piccolo sono cannucce di legno che dovrebbe­ro portare fuori dalle fasciature alme­no la pipì. Quando Wakil si lamenta per la fame, le zanzare, il caldo, la sporcizia, la mamma contadina cerca nelle sottane un sacchettino di plasti­ca, ci infila la mano e con un dito gli strofina le gengive. pasta di oppio, freschissima, del raccolto di aprile dal­le terre di famiglia poco fuori Shin­dad, nell’ovest dell’Afghanistan, zona di competenza del contingente milita­re italiano. Wakil prima o poi smette di piangere intorpidito. la razione che gli spetta nel traffico milionario di eroina che esce dal Paese.

Shindad è la porta alla cassaforte dell’oppio afghano: a nord verso il Turkmenistan e a ovest verso l’Iran passano i panetti di droga destinati al­l’Europa. A sud ci sono le province di Farah, Kandahar ed Helmand che pro­ducono più o meno il 70 per cento del­l’eroina mondiale. Un altro 20 per cen­to arriva dal resto dell’Afghanistan e solo l’ultimo spicchio dal resto del mondo.

I piloti italiani che volano ogni gior­no alla nostra base di Farah lo vedono dai finestrini o dagli schermi delle te­lecamere spia. «A sud almeno un cam­po su tre è di papaveri, ma anche do­ve domina il grano, prima o poi, sco­pri una pennellata rossa in mezzo: pa­paveri da oppio». Tutti lo sanno, da Washington a Roma al Palazzo di Ve­tro, come sanno che l’oppio è l’unica vera industria dell’Afghanistan. Sa di droga il 50 per cento del Pil reale e il 90 dell’export. Gli oppiacei finanzia­no i talebani e non solo. In campagna elettorale la famiglia del presidente Karzai è stata accusata di arricchirsi con la droga come i suoi alleati «signo­ri della guerra» destinati alla vicepre­sidenza. La popolazione tossicodipen­dente è in crescita esponenziale. Il pic­colo Wakil è già nell’elenco. Gli stra­nieri che versano milioni in aiuti e ve­dono i loro soldati morire nel Paese as­sistono imbarazzati. «I fondi utilizzati nello sradicamen­to dei papaveri sono soldi buttati – ha sentenziato all’inizio dell’anno Ri­chard Holbrooke, rappresentante spe­ciale americano per l’area ”. Non ri­ducono la produzione e spingono i contadini tra le file dell’insorgenza». Alla Conferenza dell’Aia di marzo è stata annunciata la «strategia alterna­tiva » della comunità internazionale: basta sradicamento, più aiuti all’agri­coltura legale e lotta senza pietà ai trafficanti. La svolta voluta da Hol­brooke è però lenta ad arrivare. In aprile, proprio a Shindad, gli america­ni hanno lanciato un’altra operazione «Sradicamento»: 5 milioni di dollari per strappare il distretto al narcotraffi­co. Il piano prevedeva una distruzio­ne massiccia dei campi, con almeno dieci giorni di combattimento per ave­re la meglio sulla resistenza delle mili­zie filo-talebane a guardia del prodot­to ed in contemporanea compensazio­ni ai singoli agricoltori come Yassin Khan e Margalara, genitori di Wakil. Mobilitata anche la prima Brigata af­ghana di Herat del comandante Ziarat Shaa che parla un po’ d’italiano per aver frequentato il Centro di Alti Stu­di Difesa in Italia. Invece è cominciato tutto il 22 aprile ed è finito il 24 con un giorno di riunione tra Marines e anziani con barba e turbante, qualche ora di distribuzione di aiuti umanita­ri, un campetto di oppio sradicato e i 5 milioni di dollari consegnati in con­tanti al mullah Lal Mohammad, capo distrettuale di Shindad. Il mullah avrebbe dovuto convincere le tribù del posto a cambiare alleanza, abban­donare papaveri e talebani e schierar­si con Kabul per un’agricoltura legale e sovvenzionata. Un bluff: gli attentati a Shindad anche contro le truppe ita­liane sono addirittura aumentati.

Un fallimento istruttivo su almeno due misteri afghani: la resistenza dei papaveri ai supposti sradicamenti e la corsa alle posizioni pubbliche nelle province più difficili dell’Afghani­stan. La produzione di oppio resiste perché i fondi americani e britannici invece che ai contadini o alle infra­strutture vanno spesso a leader locali corrotti o doppiogiochisti. Le poltro­ne del potere locale afghano, invece, sono contese a suon di dollari perché se usate con spregiudicatezza posso­no far diventare ricchi come è succes­so al capo distretto di Shindad. Si par­la di un tariffario accurato: mille dolla­ri per fare il poliziotto in una zona di papaveri, 10 mila per il posto di com­missario, minimo centomila per quel­lo di «capo distretto».

Secondo l’Onu i talebani ottengono dalla «oshch» (la «decima») sul rac­colto, ma anche dalla protezione «ma­fiosa » di campi, laboratori di raffina­zione e carovane per l’export, almeno 300 milioni di dollari l’anno. Soldi che poi diventano armi e stipendi per miliziani. «Un chilo di pasta da oppio – è la sintesi brutale del generale Ro­sario Castellano, ex comandante ad Herat – basta ad arruolare dieci insor­ti ».

Ai prezzi attuali un chilo di oppio essiccato costa 80 dollari comprando­lo dal produttore mentre già appena oltre confine passa di mano a quasi mille dollari, in Europa schizza a 10 mila. Dimenticando le donazioni del­la jihad internazionale, altri milioni ar­rivano ai talebani dalle tangenti versa­te dai contingenti occidentali in cam­bio di protezione o, l’ha rivelato la stampa britannica, per il trasporto dei rifornimenti militari dal Pakistan.

Su un tema così importante per la stabilità dell’Afghanistan, la comuni­tà internazionale avanza in ordine sparso. Gli Usa hanno aumentato di anno in anno i fondi per sradicare le piantagioni, ma stanno per cambiare tutto. La Gran Bretagna, assumendosi nel 2006 la gravosa responsabilità del­la provincia di Helmand, aveva fatto della conversione delle colture la pun­ta di diamante della sua strategia. Fal­limento totale. I contadini «onesti» non sono tornati e i campi sono rima­sti a papavero difesi dai kalashnikov talebani. Gli altri Paesi Nato non con­siderano il traffico di droga (e men che meno la coltivazione dei fiori) co­me ragione di intervento militare e si tengono fuori dalla questione.

In agosto il Pentagono ha inserito i nomi di 50 grossi trafficanti (talebani e no) nell’elenco degli obbiettivi da «cercare e distruggere» in mano alle sue forze speciali. «Search and des­troy » è la versione moderna della clas­sica «licenza di uccidere». Per la Nato ancora imbarazzo.

Andrea Nicastro