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 2009  settembre 24 Giovedì calendario

«IL CALCIO DEVE IMPARARE DALLA NBA SOLO CHI HA I BILANCI IN REGOLA VINCE»


Il commissioner Stern: «Tra 8 anni avremo una franchigia europea»

NEW YORK – Immerso nel silenzio del suo ufficio al 19˚ piano dell’Olympic Tower, con spettacolare vista sulla Quin­ta strada e sulle guglie di St. Patrick, Da­vid Stern non si è ancora stancato di lavo­rare al perfezionamento del suo giocatto­lo. Era il 1984 quando il piccolo grande uomo fu scelto come commissioner della Nba: all’epoca il basket americano rischia­va la bancarotta, oggi è una straordinaria macchina da spettacolo (e, la cosa non guasta, da soldi).

Mister Stern, 25 anni da grande capo della Nba sono tanti?

«Sono un bel risultato».

Come è cambiato il basket in questo quarto di secolo?

«Il gioco in sé è sempre lo stesso, è il contorno che è cambiato. Le arene sono nuove. La tv è nuova, non più solo 3 cana­li più la tv via cavo. Internet non c’era. Il mercato sportivo è nuovo, a partire da Mi­chael Jordan in poi. La diffusione interna­zionale è nuova, oggi siamo in 215 paesi e 43 lingue diverse».

Eppure nel 1984, quando lei divenne commissioner, le finali Nba non andava­no in diretta tv...

«Oggi abbiamo con la Walt Disney un contratto televisivo di 8 anni per 3 miliar­di di dollari, mentre le 30 squadre hanno un contratto per la tv via cavo di 10 anni che porterà a ognuna di loro 15 milioni di dollari l’anno».

Niente male. Però si è molto parlato del prestito di 200 milioni di dollari rice­vuto dalla Nba...

«Se le banche ti chiamano per offrirti 200 milioni, non puoi che accettare. Le squadre possono disporre di quel denaro come meglio credono».

Parliamo di numeri: il compenso me­dio per i giocatori Nba è di circa 5,7 mi­lioni di dollari. Come li ha convinti per il 2010 a ridursi i compensi?

«Lavorando assieme a loro. Non abbia­mo detto ai giocatori che intendevamo pa­garli di meno, ma che dovevamo trovare un modello economico funzionante».

Parliamo di gioco: il calo del pubbli­co era inevitabile o è dipeso dal fatto che ci fossero in campo meno star?

«Calo dell’audience? Quella della scor­sa stagione è stata la terza in assoluto in tutta la storia della Nba. E nonostante i problemi finanziari, i fan ci seguiranno lo stesso, perché in campo ci saranno sem­pre giocatori come Kobe Bryant, LeBron James, Carmelo Anthony».

Eppure le leggende restano i Jordan, i Jabbar, i Magic, i Bird, i Doctor J...

«...e l’audience era inferiore rispetto a oggi...».

La Nba oggi ospita tanti giocatori non statunitensi.

«Sì: 70, per l’esattezza»

Significa che nel basket il gap tra Usa

e il resto del mondo si sta chiudendo, o è una strategia per ampliare il mercato?

«Entrambe le cose. Il gap si stia chiu­dendo, perché un numero sempre cre­scente di giovanissimi inizia a palleggia­re, invece che prendere a calci un pallone. Le nazionali argentina, spagnola, france­se e statunitense mettono insieme 31 gio­catori con esperienze nella Nba su 48, il che significa che il nostro sport è sempre più diffuso in tutto il mondo e a livelli ele­vati ».

Da americano, non le spiace veder perdere la nazionale americana?

«Da tifoso magari sì. Ma da commissio­ner Nba sono felice perché dalla lega esco­no i migliori giocatori delle varie naziona­li ».

Cosa pensa dei tre giocatori italiani?

«Bargnani ha forza e tiro, Belinelli com­prensione globale del gioco, Gallinari – anche se purtroppo l’abbiamo visto solo a sprazzi – fa praticamente tutto: è un gran difensore, non ha paura del contatto fisico, ha un ottimo tiro. E poi c’è un quar­to giocatore italiano».

Ovvero?

«Dino Meneghin. Il mio grande rim­pianto ».

Forse anche il grande rimpianto di Meneghin. Ora è presidente della Feder­basket italiana.

«Farà benissimo».

Quali sono le nuove frontiere della Nba?

«Vedo tre diversi tipi di frontiere. La prima è geografica: Cina, India, Est euro­peo, America Latina, Africa. La seconda è il digitale. La terza sono le donne, perché un numero sempre crescente di donne inizia a giocare a basket».

Quando ci sarà una squadra europea nella Nba?

«Tra otto anni»

Perché proprio otto?

(risata) «Perché due anni fa ho detto che sarebbero stati dieci».

Lei è un fan del soccer?

«Soccer? Chiamiamolo con il suo no­me giusto: calcio. Sì, lo seguo».

Perché non attecchisce negli Usa?

«Attecchirà, è solo questione di tem­po ».

Come mai fa così fatica?

«Perché gli americani sono cresciuti con il baseball, lo sport americano per ec­cellenza. Poi è arrivato il football, gioco di passione e di territorio. Quindi è toccato al basket, che si è evoluto assieme alla so­cietà americana ed è diventato un gioco molto veloce e duro, come l’hockey».

E il calcio?

« uno sport bellissimo da guardare, ma con ritmi che gli americani devono an­cora capire».

Li capiranno mai?

«Sì. Il calcio americano è in piena cre­scita, il prossimo passaggio sarà giocare in stadi costruiti per il calcio».

 stata una buona cosa l’arrivo di Be­ckham al Galaxy?

«Una lega deve crescere gradualmente. Prima di prendere Beckham, la lega deve essere adeguata a Beckham».

Nel calcio europeo sono le squadre con i bilanci in rosso a vincere sul cam­po.

«Non ha senso. Bisogna accettare il fat­to che una buona gestione manageriale è indispensabile. Il che vuol dire sì avere buoni giocatori, ma anche funzionare fi­nanziariamente. Se hai una squadra che vince il campionato ma poi perde 300 mi­lioni di sterline, che senso ha?».