Roberto De Ponti, Corriere della sera 24/09/2009, 24 settembre 2009
«IL CALCIO DEVE IMPARARE DALLA NBA SOLO CHI HA I BILANCI IN REGOLA VINCE»
Il commissioner Stern: «Tra 8 anni avremo una franchigia europea»
NEW YORK – Immerso nel silenzio del suo ufficio al 19˚ piano dell’Olympic Tower, con spettacolare vista sulla Quinta strada e sulle guglie di St. Patrick, David Stern non si è ancora stancato di lavorare al perfezionamento del suo giocattolo. Era il 1984 quando il piccolo grande uomo fu scelto come commissioner della Nba: all’epoca il basket americano rischiava la bancarotta, oggi è una straordinaria macchina da spettacolo (e, la cosa non guasta, da soldi).
Mister Stern, 25 anni da grande capo della Nba sono tanti?
«Sono un bel risultato».
Come è cambiato il basket in questo quarto di secolo?
«Il gioco in sé è sempre lo stesso, è il contorno che è cambiato. Le arene sono nuove. La tv è nuova, non più solo 3 canali più la tv via cavo. Internet non c’era. Il mercato sportivo è nuovo, a partire da Michael Jordan in poi. La diffusione internazionale è nuova, oggi siamo in 215 paesi e 43 lingue diverse».
Eppure nel 1984, quando lei divenne commissioner, le finali Nba non andavano in diretta tv...
«Oggi abbiamo con la Walt Disney un contratto televisivo di 8 anni per 3 miliardi di dollari, mentre le 30 squadre hanno un contratto per la tv via cavo di 10 anni che porterà a ognuna di loro 15 milioni di dollari l’anno».
Niente male. Però si è molto parlato del prestito di 200 milioni di dollari ricevuto dalla Nba...
«Se le banche ti chiamano per offrirti 200 milioni, non puoi che accettare. Le squadre possono disporre di quel denaro come meglio credono».
Parliamo di numeri: il compenso medio per i giocatori Nba è di circa 5,7 milioni di dollari. Come li ha convinti per il 2010 a ridursi i compensi?
«Lavorando assieme a loro. Non abbiamo detto ai giocatori che intendevamo pagarli di meno, ma che dovevamo trovare un modello economico funzionante».
Parliamo di gioco: il calo del pubblico era inevitabile o è dipeso dal fatto che ci fossero in campo meno star?
«Calo dell’audience? Quella della scorsa stagione è stata la terza in assoluto in tutta la storia della Nba. E nonostante i problemi finanziari, i fan ci seguiranno lo stesso, perché in campo ci saranno sempre giocatori come Kobe Bryant, LeBron James, Carmelo Anthony».
Eppure le leggende restano i Jordan, i Jabbar, i Magic, i Bird, i Doctor J...
«...e l’audience era inferiore rispetto a oggi...».
La Nba oggi ospita tanti giocatori non statunitensi.
«Sì: 70, per l’esattezza»
Significa che nel basket il gap tra Usa
e il resto del mondo si sta chiudendo, o è una strategia per ampliare il mercato?
«Entrambe le cose. Il gap si stia chiudendo, perché un numero sempre crescente di giovanissimi inizia a palleggiare, invece che prendere a calci un pallone. Le nazionali argentina, spagnola, francese e statunitense mettono insieme 31 giocatori con esperienze nella Nba su 48, il che significa che il nostro sport è sempre più diffuso in tutto il mondo e a livelli elevati ».
Da americano, non le spiace veder perdere la nazionale americana?
«Da tifoso magari sì. Ma da commissioner Nba sono felice perché dalla lega escono i migliori giocatori delle varie nazionali ».
Cosa pensa dei tre giocatori italiani?
«Bargnani ha forza e tiro, Belinelli comprensione globale del gioco, Gallinari – anche se purtroppo l’abbiamo visto solo a sprazzi – fa praticamente tutto: è un gran difensore, non ha paura del contatto fisico, ha un ottimo tiro. E poi c’è un quarto giocatore italiano».
Ovvero?
«Dino Meneghin. Il mio grande rimpianto ».
Forse anche il grande rimpianto di Meneghin. Ora è presidente della Federbasket italiana.
«Farà benissimo».
Quali sono le nuove frontiere della Nba?
«Vedo tre diversi tipi di frontiere. La prima è geografica: Cina, India, Est europeo, America Latina, Africa. La seconda è il digitale. La terza sono le donne, perché un numero sempre crescente di donne inizia a giocare a basket».
Quando ci sarà una squadra europea nella Nba?
«Tra otto anni»
Perché proprio otto?
(risata) «Perché due anni fa ho detto che sarebbero stati dieci».
Lei è un fan del soccer?
«Soccer? Chiamiamolo con il suo nome giusto: calcio. Sì, lo seguo».
Perché non attecchisce negli Usa?
«Attecchirà, è solo questione di tempo ».
Come mai fa così fatica?
«Perché gli americani sono cresciuti con il baseball, lo sport americano per eccellenza. Poi è arrivato il football, gioco di passione e di territorio. Quindi è toccato al basket, che si è evoluto assieme alla società americana ed è diventato un gioco molto veloce e duro, come l’hockey».
E il calcio?
« uno sport bellissimo da guardare, ma con ritmi che gli americani devono ancora capire».
Li capiranno mai?
«Sì. Il calcio americano è in piena crescita, il prossimo passaggio sarà giocare in stadi costruiti per il calcio».
stata una buona cosa l’arrivo di Beckham al Galaxy?
«Una lega deve crescere gradualmente. Prima di prendere Beckham, la lega deve essere adeguata a Beckham».
Nel calcio europeo sono le squadre con i bilanci in rosso a vincere sul campo.
«Non ha senso. Bisogna accettare il fatto che una buona gestione manageriale è indispensabile. Il che vuol dire sì avere buoni giocatori, ma anche funzionare finanziariamente. Se hai una squadra che vince il campionato ma poi perde 300 milioni di sterline, che senso ha?».