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 2009  ottobre 01 Giovedì calendario

MAMMA BAARIA


’Mannina, ancora le lucidi le scarpe la mattina?”. Le parole, quella volta, a mamma Tornatore non vennero veloci: chi era quella signora che in farmacia la riportava alla scena quotidiana delle scarpe dei figli e del marito, tutte in fila, in ordine di numero, e lei davanti a toglierne l’aria vissuta? ”Rimasi interdetta: ”Scusasse, non mi conosci ammè”. Sbagliavo: scoprii che abitavamo nella stessa strada, 30 anni prima”.

Era così Bagheria a quei tempi: ”Dietro le persiane, la gente a quante cose stava attenta. C’erano le strade strette, la mattina ci si affacciava alle finestre e già si conversava. Se uno cucinava, dava un piattino alla famiglia di fronte per fare assaggiare”.
Piccolo mondo antico che sta dentro a Marianna Tornatore (Mannina) come la ricetta dei pomodori che mette a conserva: 500 chili ne ha preparati quest’estate fra passata, pelati e secchi: ”Li mando alle nuore”.

Se la ricorda bene la Bagheria che fu, le scorre sotto gli occhi mentre fissa il mare dalla terrazza di casa sua poco fuori dal paese (”Prima e ultima intervista”). Le esce una data, 9 maggio 1942, allora aveva 10 anni e una vita da romanzo davanti. ”Ho visto arrivare tutti quegli aerei, mandavano giù le bombe e la gente scappava”. Suo figlio Giuseppe, dopo otto film e un Oscar, l’ha fatta piangere riproponendole quella scena, una delle tante spettacolari di Baarìa: ”Tante volte mi sono commossa vedendo il film, ma lì pure le lacrime mi sono venute”.

Come quando è andata sul set in Tunisia, dove Tornatore ha fatto ricostruire il paese nei minimi dettagli e l’ha trasformato seguendo il passo del racconto del film, dagli anni Trenta agli Ottanta. ”C’era tutto, Peppuccio è poeta ma ha un computer in testa, tutto si è ricordato. Pure il bar Aurora, quello bello nel corso, dei ricchi”.

 da quando è adolescente che il regista raccoglie fogli, pezzi di carta, 600-700 appunti con aneddoti, personaggi, frasi del paese ”da cui tutto parte” come dice lui. Se la mamma metteva in ordine di numero le scarpe da lucidare, il figlio regista la supera in quanto a precisione: per Baarìa, per esempio, ha fatto rifare le piastrelle della strada andando a riprendere lo stampo del tempo, ha scovato i proprietari dei bagni-palafitte sul mare che tenevano i pezzi in magazzino e se li è fatti mandare in Tunisia, ha curato i decori. E Mannina è stata la consulente occulta. Filologia familiare.

Ci volevano incoscienza, coraggio e testardaggine per imbarcarsi in un ”kolossal intimo” qual è Baarìa, ora nelle sale. E adesso si sa chi gliele ha passate queste doti. Aveva 16 anni Mannina quando incontrò il futuro marito, vent’anni e tanta bellezza. Andava a scuola di ricamo, era promessa sposa a un vicino, possidente di una casa. ”Ci siamo visti e ci siamo voluti. Ci siamo acchiappati”. Ma il padre di lei si oppone e loro fanno la ”fuitina”, la fuga, il ”danno” prima del matrimonio riparatore che sarebbe seguito come da copione (la fuitina era usanza del Sud).

C’è tutto nel film. ”Non fuggimmo, ci chiudemmo in casa. Ogni tanto mi domando: ma come ho fatto a ribellarmi a mio padre? Dove ho trovato il coraggio? Ero una ragazza moderna, mi dico. Perché l’idea mia fu. Ogni tanto mio marito mi stuzzicava: ”Diglielo ai figli che sei stata tu”. Nel film c’è la scena e sono proprio io”.

Un amore leggendario, lo definisce il regista. ”Non conoscevamo soldi, se c’era da mangiare o non ce ne era, andava bene lo stesso. ”Abbiamo patito la fame ma guarda che famiglia abbiamo fatto” mi disse anni dopo mio marito. Lui voleva tenersi i figli vicini, ha sofferto quando se ne sono andati”.

Non fu il solo: ”Quando Giuseppe partì per il militare, piangevo tutto il giorno e andavo nella sua stanza a toccare le cose. Ero preoccupata per il mangiare, lui era difficile per quello”. Era abituato bene il ragazzo: Mannina ha l’arte del cibo nel sangue, a tutt’oggi Peppuccio reclama le panelle (frittatine con farina di ceci), il minestrone, il filetto a velo impanato e gli spaghetti al pomodoro.

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’Ha sempre voluto fare le cose bene. Andavo al ricevimento dei professori e mi dicevano: ”Che ci è venuta a fare?”. Quando al ginnasio prese una materia, convinse i professori a bocciarlo. Ma dal liceo uscì col massimo dei voti”. Orgoglioso, come lei: ”Ha fatto tutto da solo, non ha mai voluto raccomandazioni o aiuti. un trattore come me, macina, macina lavoro, non smette mai. Fin da piccolo era una fatica mandarlo a giocare con i bambini. Per lui non fare niente era vita sprecata”.

Dopo il liceo, il padre spinse il terzo dei cinque figli a iscriversi a un concorso per un posto in banca, Giuseppe lo vinse ma non si presentò. Ci rimase male il genitore, Mannina sa che il figlio non avrebbe mai potuto stare a contare soldi: ”Gli era scoppiata la passione per la fotografia e il cinema. E se si mette in testa qualcosa, non si arrende mai”.

Come il girare un film su se stesso, perché Bagheria è Giuseppe Tornatore e Baarìa è Bagheria. Il regista ha ammesso nel libro intervista con Pietro Calabrese (Baarìa, Rizzoli) di avere fatto il film solo per la madre e la figlia che hanno lo stesso nome: 77 anni la prima, 6 la bambina. Non un’autobiografia, ma qualcosa di molto intimo, personale, con la nostalgia per quell’Italia passata che si impadronisce dello spettatore, senza appello.

Mannina sa qual è il segreto di quel tempo: ”Noi abbracciavamo la vita così come arrivava. Sapevamo sopportare. C’era più ignoranza ma più voglia di cultura. C’era più ingenuità. E solidarietà”. Molto diversa dalla società fluida di oggi, precaria e volatile nei valori. Le vengono in mente due episodi (che non sono nel film): ”Ricordo una signora che aveva sei, sette figli, il marito andava a vendere il latte. Lei comprava mezzo chilo di pasta sfusa per l’intera famiglia, ma per lui spendeva anche 20 lire per il formaggio. Erano solo due bocconi. Erano per lui. C’era poi una signora che abitava in fondo alla strada, e ogni volta che era tempo di vendemmia veniva da mia madre: teneva un piatto nascosto sotto il grembiule, ci aveva messo l’uva. ”Donna Pietrina, abbiamo fatto la vendemmia, gradite un po’ di uva?” diceva. Veniva apposta, capisce?”.


Mamma Tornatore ha nostalgia anche della politica del passato (che nel film ha un ruolo importante perché il padre del regista fu un convinto comunista), le è piaciuto rivedere sullo schermo la Baarìa sgarrupata, con le strade di terra e la gente che non metteva insieme il pranzo con la cena: ”C’erano gli ideali, si pensava che la politica aiutasse a migliorare la vita. Nella mia ignoranza dico: oggi si bandizzano, si offendono, pure si picchiano. E non pensano al bene comune’.

Dopo avere visto il film, in una proiezione privata a Roma a fine agosto, Marianna Tornatore si è limitata a dire: ”Sei un grande”, tre parole di commento, fin troppe per mamma e figlio abituati a intendersi con un niente. ”Eravamo tutti e due emozionati”.
Sfidando la paura dell’aereo, questa siciliana che non ha mai detto in vita sua ”sono stanca” è andata anche a Venezia, dove il film ha aperto la Mostra del cinema e ne è partito senza alcun riconoscimento fra lo stupore di molti. Ora è nelle sale, il pubblico deciderà senza la zavorra di applausi e stroncature preventivi.
Nelle due ore di intervista con il mare davanti e Bagheria moderna sotto, viene in mente che per questa donna solida e piena la frase che chiude il film non si addice proprio: ”Crediamo di abbracciare il mondo ma abbiamo braccia troppo corte”. Marianna Tornatore le braccia le ha avute lunghe per 77 anni.