Marco Damilano, L’Espresso, 1 ottobre 2009, 1 ottobre 2009
MARCO DAMILANO PER L’ESPRESSO 1 OTTOBRE 2009
Caos democratico Si arroventa la corsa alla segreteria del Pd. Tra sospetti, veleni, ricorsi. E un incubo: l’ipotesi che nessun candidato raggiunga il quorum del 50 più uno. Allora sarebbe davvero la guerra
Bip bip. Piovono sms nei cellulari dei candidati alla segreteria del Pd. L’altra sera, alla festa dei democratici di Torino, era un diluvio nel telefonino di Dario Franceschini. Arrivano i primi dati dei congressi di circolo, si combatte sezione per sezione, il segretario si compiace di leggere ad alta voce quelli favorevoli: "Giardino di Ferrara, Franceschini 131 voti, Bersani 31...". Piovono anche i primi sospetti, veleni, ricorsi, dal Nord al Sud. A Sestri, il circolo più grande della Liguria, i franceschiniani denunciano che agli iscritti che chiedevano lumi su come votare è stato distribuito un facsimile con il nome di Pier Luigi Bersani. In Calabria, accusa Fernanda Gigliotti candidata alla segreteria regionale per la mozione di Ignazio Marino, siamo alla moltiplicazione delle tessere. "A Catanzaro Centro su un’anagrafe di 379 iscritti, hanno votato ben 682 persone, 474 per la Mozione Bersani. Senza garanzia di segretezza del voto, con qualche amministratore che ha compilato le schede al posto degli iscritti".
Bip bip. Arrivano altri dati inquietanti. A Messina fa il pieno il consigliere regionale Giuseppe Lupo, sostenitore di Franceschini: nella prima domenica di votazione il 90 per cento dei voti, a Bersani e Marino restano le briciole. In compenso, il dalemiano Sergio Blasi, candidato alla segreteria della Puglia per conto della mozione dell’ex ministro dello Sviluppo economico, vola all’85 per cento in Salento e addirittura al 95 per cento in provincia di Taranto. Manco fossimo in Bulgaria.
Bip bip. Così, tra un bip e l’altro va avanti il primo congresso del Partito democratico. Doveva essere il momento dello scontro tra i candidati portatori e i loro progetti per risalire la china a un partito che dopo un anno appena di vita alle ultime elezioni europee ha perso oltre quattro milioni di voti ed è precipitato al 26 per cento. Sostenevano che da qui sarebbero ripartiti per rimettere in carreggiata l’opposizione. Per ora, però, i risultati sono poco confortanti. La mappa dei primi congressi di circolo consegna un’immagine del Pd da Medioevo: un insieme di feudi dove conta un solo voto, quello del capobastone. Cuius regio eius religio, come nelle guerre di religione del Seicento. Basta portare con sé il segretario del circolo e il gioco è fatto. Capita che perfino il mite Marino, l’outsider della competizione, riesca a conquistare qualche bandierina: in Piemonte, a Nichelino, nella cintura piemontese, la sua mozione vince trascinata dall’ex deputato Salvatore Buglio. E al circolo dell’Anagnina, periferia romana, conquista il 63 per cento dei voti.
Almeno in questo, l’obiettivo di far avvicinare le due famiglie d’origine, quella ex Pci e l’antica stirpe democristiana, è stato raggiunto. Con gli uomini di provenienza Quercia che hanno mietuto tessere come neppure Antonio Gava nella Dc ai suoi tempi: a Cinecittà, nella capitale, ne sono spuntate 220 in un solo fine settimana, tutti abitanti nello stesso caseggiato. E gli ex dc capeggiati da Giuseppe Fioroni che provano il brivido dell’organizzazione.
Una gigantesca conta che serve a riequilibrare i pesi interni, soprattutto a livello locale. Mentre a Roma il Pd continua a balbettare politica e a dividersi sui temi che contano. Sulle questioni etiche, per esempio, dove è più forte la passione e scatta puntualmente l’applauso dei militanti alle feste estive e negli incontri congressuali per chi sostiene posizioni nette, il gruppo parlamentare del Senato si presenta in ordine sparso: Dorina Bianchi, franceschiniana, dice sì all’indagine conoscitiva sulla pillola abortiva Ru486 propugnata dalla destra, la diessina Vittoria Franco quasi la scomunica: "Inopportuna decisione personale non condivisa dalla stragrande maggioranza del gruppo". Sulle alleanze si va in ordine sparso: Franceschini incontra Antonio Di Pietro a pranzo e rinsalda l’asse con Italia dei Valori, con Tonino che sornionamente si tiene alla larga dalla contesa interna ai Democratici, ma in realtà si prepara a far valere il suo peso. E Bersani che corteggia gli amici dell’Udc, il nordico Bruno Tabacci in testa. Con il suo amico Enrico Letta, capogruppo alla Camera in pectore in caso di vittoria dei bersaniani, che si spinge a offrire una sponda perfino a Gianfranco Fini, non si sa mai. Sulle imminenti elezioni regionali su cui il nuovo segretario del Pd, chiunque sia il malcapitato, rischia di giocarsi il posto appena eletto, il centrodestra sta sistemando le caselle più importanti: il Veneto da affidare a un presidente della Lega, il Lazio che potrebbe finire alla pasionaria finiana Renata Polverini, la segretaria dell’Ugl popolare anche a sinistra, la Campania che è nelle mire del sottosegretario all’Economia, il casalese Nicola Cosentino. E il Pd? Aspetta l’esito del congresso per cominciare a discuterne. Con il rischio di arrivare alla vigilia della campagna elettorale con nomi e alleanze ancora tutte per aria. Fanno eccezione le Marche: qui il segretario regionale è già deciso, un candidato unitario, Palmiro Ucchielli, che lavora per il voto di primavera. "Ma da Roma, incredibilmente, ci avevano chiesto di dividerci: servivano candidati in regione per trainare i nomi nazionali", raccontano sbigottiti i marchigiani.
Una confusione figlia di un regolamento barocco, un congresso diviso in due fasi, il voto dei circoli per indicare i candidati che finiranno alle primarie, e la super-domenica dei gazebo, il 25 ottobre, che consegnerà la vittoria a chi sarà stato in grado di raggiungere il 50 per cento più uno dei voti. E se non ce la fa nessuno? lo scenario più temuto, la bocciatura in massa della classe dirigente del partito che sarebbe richiamata due settimane dopo a eleggere il leader in un’assemblea, tra i primi due arrivati, e con voto segreto. Si può immaginare in quale clima.
I due candidati principali hanno già estratto le armi. Gli uomini di Bersani accusano Franceschini di mortificare gli iscritti per non valorizzare il vantaggio dell’ex ministro. Il segretario, in ritardo nei circoli, bombarda Bersani di provocazioni e insinuazioni. Come quella di aver sforato il tetto delle spese elettorali per riempire le città di manifesti con la sua faccia. Il deputato Salvatore Vassallo ha fatto di più: ha chiesto a Rosy Bindi di dichiarare chi ha pagato il conto di una cena offerta a 300 militanti del Pd a Viterbo (risposta: l’associazione TusciaEuropa dell’ex tesoriere Ds Ugo Sposetti). Il terzo incomodo Marino nelle regioni del Nord va meglio del previsto e comincia a fare paura: soprattutto se, nei previsti faccia a faccia, riuscirà a convincere una platea molto più ampia degli iscritti che i due candidati maggiori appartengono al passato e che lui è il rinnovamento.
Allora il rischio dell’impasse delle primarie, oggi esclusa da tutti, potrebbe diventare un’eventualità concreta. Non la escludono personaggi di primo piano che finora si sono tirati fuori dalla conta Bersani-Franceschini-Marino: il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, che minaccia di votare scheda bianca, il giovane Matteo Renzi, sindaco di Firenze, che lancia il gruppo 26 ottobre, quelli che già guardano alla puntata successiva (dove lui spera di essere protagonista), il fondatore dell’Ulivo Arturo Parisi che medita di non andare a votare. E non la escludono i soliti, eterni dioscuri del partito: Massimo D’Alema, impegnatissimo per Bersani, ma pronto a garantire l’unità del partito in caso di spaccatura frontale. E Walter Veltroni: dopo aver benedetto Franceschini si è silenziosamente ritirato. Agli amici romani ha spiegato che preferisce dedicarsi alla promozione del suo ultimo romanzo. Almeno fino al 25 ottobre: se la conta dovesse fallire, anche Walter tornerebbe in campo. Bip bip.