Lorenzo Salvia, Corriere della Sera, 24/09/09, 24 settembre 2009
Le aziende non rinunciano alle spese per la cultura - 
C’è chi mette mano al portafoglio per restaurare il piccolo museo locale, chi preferisce dare un contributo per un concerto o una mostra, chi qualche soldino lo mette nella pubblicazione di un libro
Le aziende non rinunciano alle spese per la cultura - 
C’è chi mette mano al portafoglio per restaurare il piccolo museo locale, chi preferisce dare un contributo per un concerto o una mostra, chi qualche soldino lo mette nella pubblicazione di un libro. Piccole somme, quasi sempre al di sotto dei 10 mila euro. E spesso frutto di un ragionamento più di pancia che di testa, il valore affettivo prima del calcolo economico. Eppure a sommare tutte le spese per la cultura fatte in un anno dalle piccole e medie imprese italiane si arriva a tre miliardi di euro. La stessa cifra necessaria per restaurare tutte le opere d’arte danneggiate dal terremoto in Abruzzo, 1.500 ferite da richiudere tra chiese, castelli e musei.

 La stima è opera della Camera di commercio di Monza e Brianza. In occasione del primo forum dell’Unesco per la cultura e le industrie culturali, che si è aperto ieri nella Villa Reale di Monza e andrà avanti fino a domani, l’ufficio studi della Camera di commercio ha sondato i comportamenti di 600 piccole imprese tra Milano, Monza, Roma e Napoli. Da quelle pagine viene fuori che a spendere per iniziative culturali esterne è un’azienda su dieci. Un dato stabile guardando al passato, solo che la crisi rende meno generosi i piccoli Mecenate d’Italia. Cala il fatturato, calano gli ordini, non è certo una sorpresa se anche gli investimenti in cultura abbiano davanti il segno meno. Tra le aziende che fanno donazioni o sponsorizzazioni due su tre hanno tagliato qualcosa. Il risultato finale, rispetto all’anno scorso, è una flessione delle somme stanziate pari al 17 per cento. Una frenata decisa ma non il crollo che si poteva temere con l’aria che tira. Non solo, perché ci sono importanti segnali in controtendenza.

 Tra le 150 imprese romane sentite per la ricerca il 36,4 per cento ha detto di non aver ridotto gli investimenti in cultura. Mentre a Milano, sempre su 150 imprese, il 20 per cento li ha addirittura aumentati. Sono forse pazzi? «No – dice Giulio Sapelli, professore di Storia economica alla Statale di Milano – è che gli imprenditori sono meglio di come uno se li immagina. E, soprattutto quelli piccoli, hanno ben presente la loro responsabilità sociale».

 Un esempio? lo stesso professore a raccontare di alcuni suoi amici di Pieve di Cadore, piccoli imprenditori nel settore degli occhiali: «A loro spese hanno restaurato la casa del Tiziano. Non hanno fatto pubblicità, praticamente non lo sa nessuno».

Perché tirano fuori quei soldi? Lo studio della Camera di commercio di Monza dice che una volta su due la molla è economica, che si tratta di un «investimento per fini promozionali e di marketing». Una spesa che avrà un suo ritorno, insomma. Ma c’è anche un 32 per cento che si dice mosso dal «desiderio di diffondere la cultura». Mecenatismo in purezza. Una voglia che sembra più diffusa a Roma (46,7 per cento), va forte anche a Milano (41,7), arretra a Napoli (27,3) e precipita a Monza con l’8,3 per cento. 

Il professor Sapelli la spiega così: «La piccola impresa non se ne va dal territorio, non delocalizza semmai chiude. nata lì e resta lì, nella sua città. E allora chi decide di investire in cultura non lo fa per convenienza economica, che pure ha la sua dignità, ma come elemento affettivo, di relazione. Tira fuori i soldi perché conosce il parroco e allora lo aiuta a restaurare la cripta, oppure perché conosce il professore del liceo che cura una collana di libri, o ancora perché è amico del sindaco del paesino che vuole risistemare la piazzetta».

Relazioni affettive più che calcolo economico: «Da questo punto di vista le piccole imprese non vanno considerate aziende ma famiglie che fanno attività economiche. 

E grazie al cielo ogni giorno gli uomini fanno tante cose che un ritorno economico non ce l’hanno proprio». Motivazioni economiche o affettive che siano, quei tre miliardi di euro l’anno sono un tesoretto che oggi scivola via per mille stradine diverse. Il settore preferito – secondo lo studio della Camera di commercio di Monza – è l’organizzazione di convegni e seminari. Subito dopo seguono l’organizzazione di mostre e la pubblicazione di libri, poi la sponsorizzazione di concerti e di spettacoli teatrali. Solo all’ultimo posto la costruzione e la ristrutturazione di edifici per la cultura, settore ad alto investimento dove le piccole donazioni possono pochino. Non è un caso visto che tra i piccoli Mecenate d’Italia uno su tre investe in cultura meno di mille euro l’anno, e un altro 30 per cento si ferma comunque sotto i 10 mila.

 Tanti piccoli interventi, spesso importanti, sempre meritori. Va bene così? Carlo Edoardo Valli, presidente della Camera di commercio di Monza e Brianza, avanza la sua proposta: «Questi contributi potrebbero fare massa critica e, uniti ad una politica di defiscalizzazione, essere indirizzati di volta in volta verso un settore specifico con una cabina di regia nazionale ». Ogni anno, in sostanza, il governo potrebbe scegliere dove concentrare gli sforzi, dagli scavi archeologici al restauro delle chiese oppure dei musei. E fare uno sconto sulle tasse a chi dona soldi per le attività necessarie, magari quelle vicino casa per non perdere quel legame con il territorio che sembra così importante.

 Oggi degli sgravi fiscali sono comunque previsti. Ma la procedura è macchinosa, molti nemmeno la conoscono e lo sconto non è tale da essere percepito come un incentivo. Un imprenditore su tre dice che, in caso di sgravi maggiori, sarebbe pronto ad investire di più. E poi è vero che ci sono imprenditori semplicemente non interessati: la maggior parte di quelli che non investono in cultura dice che non è un investimento o una priorità aziendale. Ma c’è anche un 22 per cento che sostiene di essere costretto a rinunciare perché non ce la fa. D’accordo le motivazioni affettive. Ma la ripresa economica e un buon incentivo fiscale potrebbero fare la loro parte.