Gabriela Jacomella, Corriere della sera 24/09/2009, 24 settembre 2009
La paura di insegnare dei nuovi professori (+ intervista)- Temono il rapporto con gli alunni stranieri e con i genitori E alle elementari il 66,9% dei maestri non è laureato I risultati L’80% ha scelto di fare questo mestiere «per passione», solo l’11% ritiene soddisfacente lo stipendio
La paura di insegnare dei nuovi professori (+ intervista)- Temono il rapporto con gli alunni stranieri e con i genitori E alle elementari il 66,9% dei maestri non è laureato I risultati L’80% ha scelto di fare questo mestiere «per passione», solo l’11% ritiene soddisfacente lo stipendio. Ma il 95% non tornerebbe indietro Hanno appena firmato un contratto di assunzione a tempo indeterminato, il che – soprattutto di questi tempi – dovrebbe aiutare a mettere da parte una buona dose di pensieri e preoccupazioni. Hanno detto definitivamente addio agli anni di precariato, all’ansia da graduatorie, ai contratti che scadono con il suono dell’ultima campanella. Eppure, gli insegnanti italiani non sono tranquilli. Li mette in ansia la difficoltà nel gestire classi dove è in aumento la presenza di bimbi e ragazzi stranieri, sfida affascinante ma complicata da gestire senza un’adeguata preparazione. Li destabilizza la comunicazione sempre più zoppicante con le famiglie, e non va granché meglio nel match con le nuove tecnologie: alle scuole superiori, addirittura il 49% riconosce di avere un rapporto non facile con computer e Web. E più di 2 su 5, tra le new entries che ce l’hanno (finalmente) fatta, non possiedono un titolo di laurea. Ritratto di insegnanti in un interno, quello della scuola italiana ai tempi delle riforme che si accavallano e dei fondi che non bastano mai. Ritratto accurato, perché le pennellate sono davvero molte, e fittissime: 15.071, per la precisione, pari al numero dei maestri e prof che hanno (volontariamente) risposto al questionario di 223 domande diffuso dalla Fondazione Agnelli in otto regioni italiane. Piemonte, Emilia-Romagna, Puglia (che avevano già preso parte a una prima indagine, nel 2008); e ancora, Lombardia, Veneto, Liguria, Marche e Campania. Otto gli Uffici scolastici regionali coinvolti. Complessivamente, 16.000 insegnanti neoassunti nell’anno scolastico 2008-2009 (il 64% del totale italiano). E quasi tutti, appunto, hanno voluto contribuire con il proprio personalissimo tocco di pennello. Le indagini precedenti, per dare l’idea, si aggiravano di norma intorno alle cinquemila interviste. «Aver superato i 15 mila questionari compilati – ammette con un certo orgoglio Stefano Molina, dirigente di ricerca della Fondazione e tra i coordinatori del lavoro – significa di gran lunga ottenere la più ampia analisi sugli insegnanti mai realizzata in Italia». Non solo: «In questi anni di vacche magre, di assunzioni a tempo indeterminato se ne sentono poche. Qui, invece, parliamo di 50 mila ingressi in ruolo nel 2008, 25 mila nel 2009: stiamo parlando del più grande fenomeno italiano di immissione a tempo indeterminato nel mondo del lavoro. E il paradosso è che finora non si sapeva bene chi fossero, queste persone: il meccanismo di reclutamento è un po’ opaco, lo stesso ministero ne conosce la classe di abilitazione, non i titoli di studio...». I titoli di studio, ecco. Quella laurea che manca, ancora, al 40,7% degli intervistati. I picchi sono, ovviamente, nei primi ordini di scuola: nessun «pezzo di carta» per il 75,6% dei «nuovi » maestri d’asilo e per il 66,9% degli insegnanti delle primarie. Il motivo? Presto detto: «Si sta raschiando il fondo del barile delle graduatorie – è la sintesi efficace di Molina ”. I neoassunti arrivano, per la metà, dalle graduatorie di concorso: ma l’ultimo è del 1999, e queste sono persone che si trovavano in una posizione così bassa da vedersi passare davanti, negli anni, moltissimi altri colleghi. L’altra metà, invece, viene dalle graduatorie ad esaurimento, in questo momento chiuse: supplenti che hanno avuto l’abilitazione in stagioni diverse, con regolamenti diversi». Insegnanti del futuro, ma già da rottamare? Certo che no, anzi: «Stiamo parlando di professionisti che in media hanno superato i 40 anni di età, di cui quasi 11 di precariato. E se i titoli non sono sempre brillantissimi, hanno una buona esperienza e un’anzianità di servizio che sopperiscono in parte alla formazione iniziale inadeguata ». Perché poi, in questo quadro a forti chiaroscuri che ritrae l’ultimo battaglione schierato nelle aule italiane, spiccano dei dati incontestabilmente positivi. «Nel corso degli anni – conferma Laura Gianferrari, dirigente dell’Ufficio scolastico regionale per l’Emilia-Romagna e coordinatrice insieme a Molina – abbiamo avuto la sorpresa di trovare sempre più la rappresentazione di un lavoro che ha un’attrattività forte, che dà soddisfazione agli insegnanti. Nonostante alcuni aspetti ben noti: la retribuzione bassa, il riconoscimento sociale che non viene avvertito, gli anni di precariato ». E in effetti, se l’80% dei neoassunti ribadisce di aver fatto una scelta «per passione», ben il 95% – un dato in crescita rispetto al 2008 – rifarebbe la stessa scelta. I motivi di soddisfazione: il lavoro con i ragazzi (93%), l’interesse per la disciplina (89%), la consapevolezza della propria utilità sociale (84%). Il livello retributivo, per contro, è ritenuto soddisfacente solo nell’11,7% dei casi, mentre il riconoscimento sociale si ferma al 31,1% – con picchi positivi al Sud: oltre il 40% in Campania, poco sotto in Puglia. Il problema vero, però, è un altro. Le nuove tecnologie Nelle superiori il 49% dei docenti appena assunti ammette di non conoscere a sufficienza computer e Web Il giudizio «Per la prima volta chi sta in cattedra si sente fortemente inadeguato, soprattutto nel rapporto con gli allievi» E va sotto il nome di «difficoltà nell’insegnare ». Una sensazione «in aumento » e «fortemente trasversale», commenta l’economista Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli. «L’impressione è che forse per la prima volta gli insegnanti italiani inizino a sentirsi fortemente inadeguati, soprattutto nel rapporto con gli allievi: c’è la percezione di un divario generazionale, tecnologico, di vita e di apprendimento, e loro non sentono di avere tutti gli strumenti per affrontarlo». Soprattutto, dati (nuovamente) alla mano, nelle scuole superiori: il 63% degli intervistati confessa problemi nel gestire la multiculturalità in classe, il 55% non sa interagire come vorrebbe con i genitori. Persino lavorare in équipe, per il 48% dei neodocenti, è complesso. «Il punto – prosegue Gavosto – è che il meccanismo di formazione produce una tipologia di insegnante sempre uguale a se stessa, che però inizia a rendersi conto di non essere più quello che serve ai ragazzi di oggi ». E in questo senso, la programmazione diventa fondamentale: «Più che annunciare tante riforme, l’obiettivo per il Paese dovrebbe essere investire in una scuola di qualità. Sulla formazione iniziale, ad esempio: la bozza di regolamento del ministero punta molto su una preparazione di tipo disciplinare, mentre quella pedagogica è ritenuta sovradimensionata. Bene, gli insegnanti ci stanno dicendo esattamente l’opposto». Sarebbe il caso di prenderne atto. Piergiorgio Odifreddi: pochi laureati insegnano questa materia «I nostri studenti, orfani della matematica» Sugli oltre 15 mila neoassunti che hanno risposto all’indagine della Fondazione Agnelli, solo il 4% ha una laurea in Matematica. E di quelli che, tra loro, insegnano questa materia in una scuola media, solo il 10% ha un titolo di studio corrispondente; il 47% è laureato in Scienze biologiche, il 22% in Scienze naturali, il 15% in Scienze geologiche. Va meglio alle superiori: 6 docenti di matematica su 10 sono laureati, appunto, in Matematica. Piergiorgio Odifreddi, matematico: come mai così pochi «specialisti» in cattedra, nel vostro settore? «Innanzitutto perché ci sono pochi laureati. La facoltà di Matematica non è tra le più gettonate in Italia, e l’offerta di lavoro supera di molto la domanda. Anche dalle indagini fatte da noi, a Torino, risulta come per un matematico sia facilissimo trovare impiego: a 6 mesi dalla laurea il 50% lavora, dopo un anno la totalità. Gli sbocchi? Dalle banche all’industrie. Non tutti, dunque, scelgono di insegnare; e i posti disponibili vanno inevitabilmente coperti da altri». Questo può avere qualche ripercussione sull’insegnamento? «In parte credo di sì: la matematica vista da un ingegnere (o un fisico, o un economista) è, con tutto il rispetto, molto diversa da quella vista da un matematico. I primi, di norma, preferiscono quella applicata; l’ingegnere tende a fare molti calcoli, a risolvere quesiti pratici. Il matematico invece ha una sensibilità per l’aspetto teorico, la parte più culturale. Il problema vero, però, riguarda più gli studenti che i prof». In effetti, le performance dei ragazzi italiani nei test di matematica Pisa-Ocse sono notoriamente poco confortanti. «Prima ancora di questo, c’è un dato di fatto da considerare: è dimostrato che l’attitudine per il pensiero logico-deduttivo si sviluppa compiutamente verso i 13-14 anni. Quindi, per insegnare matematica prima, si va in ’controtendenza’, si combatte una specie di resistenza biologica». Ancora più difficile, per chi insegna. Una via d’uscita? «Esistono corsi di specializzazione sulla didattica della matematica, per chi all’università già si orienta in questa direzione; è una tradizione che arriva, tra l’altro, anche dai Paesi anglosassoni, e un’opportunità che sicuramente manca a chi provenga da altre facoltà. Però direi che la soluzione non sta tanto nei corsi, quanto nella capacità di presentare la matematica in maniera più giocosa e accattivante. L’esperienza dei vari festival – il nostro della Matematica, quello della Scienza di Genova – ha dimostrato che funziona; bisognerebbe generalizzarlo anche nelle scuole. Negli Usa, la tendenza è quella di lasciare che i bimbi e gli adolescenti sviluppino i propri interessi e capacità: ’farli fare’ più che farli ripetere. Da noi, l’opposto. E sì che i nostri studenti sono quelli che, dati alla mano, passano a scuola più ore. Come diceva Lenin (ride) , ’meglio meno, ma meglio’...». L’Italia, insomma, non sembra un Paese per matematici. «Io credo che il nostro Paese non educhi alla razionalità, di cui la matematica è la quintessenza. Dalla Sindone di Torino al sangue di San Gennaro, da noi l’irrazionalità è istintiva; è lo sviluppo razionale ad essere meno incentivato. L’allenamento alla razionalità viene delegato a quelle 45 ore di matematica a scuola; e anche nell’ambiente culturale, l’attenzione per l’umanesimo è dominante. In Italia non c’è una grande tradizione matematica: di medaglie Fields (il Nobel del settore, ndr ) ne abbiamo una, Enrico Bombieri, che però vive negli Usa. La Francia, per dire, ne ha una decina. Forse c’è qualcosa che non va, no?».