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 2009  settembre 24 Giovedì calendario

La paura di insegnare dei nuovi professori (+ intervista)- Temono il rapporto con gli alunni stranieri e con i genitori E alle elementari il 66,9% dei maestri non è laureato I risultati L’80% ha scelto di fare questo mestiere «per passione», solo l’11% ritiene soddisfacente lo stipendio

La paura di insegnare dei nuovi professori (+ intervista)- Temono il rapporto con gli alunni stranieri e con i genitori E alle elementari il 66,9% dei maestri non è laureato I risultati L’80% ha scelto di fare questo mestiere «per passione», solo l’11% ritiene soddisfacente lo stipendio. Ma il 95% non tornerebbe indietro Hanno appena firmato un con­tratto di assunzione a tempo indeterminato, il che – so­prattutto di questi tempi – dovreb­be aiutare a mettere da parte una buo­na dose di pensieri e preoccupazioni. Hanno detto definitivamente addio agli anni di precariato, all’ansia da graduatorie, ai contratti che scadono con il suono dell’ultima campanella. Eppure, gli insegnanti italiani non sono tranquilli. Li mette in ansia la difficoltà nel gestire classi dove è in aumento la presenza di bimbi e ragaz­zi stranieri, sfida affascinante ma complicata da gestire senza un’ade­guata preparazione. Li destabilizza la comunicazione sempre più zoppican­te con le famiglie, e non va granché meglio nel match con le nuove tecno­logie: alle scuole superiori, addirittu­ra il 49% riconosce di avere un rap­porto non facile con computer e Web. E più di 2 su 5, tra le new entries che ce l’hanno (finalmente) fatta, non possiedono un titolo di laurea. Ritratto di insegnanti in un inter­no, quello della scuola italiana ai tem­pi delle riforme che si accavallano e dei fondi che non bastano mai. Ritrat­to accurato, perché le pennellate so­no davvero molte, e fittissime: 15.071, per la precisione, pari al nu­mero dei maestri e prof che hanno (volontariamente) risposto al que­stionario di 223 domande diffuso dal­la Fondazione Agnelli in otto regioni italiane. Piemonte, Emilia-Romagna, Puglia (che avevano già preso parte a una prima indagine, nel 2008); e an­cora, Lombardia, Veneto, Liguria, Marche e Campania. Otto gli Uffici scolastici regionali coinvolti. Com­plessivamente, 16.000 insegnanti ne­oassunti nell’anno scolastico 2008-2009 (il 64% del totale italiano). E quasi tutti, appunto, hanno voluto contribuire con il proprio personalis­simo tocco di pennello. Le indagini precedenti, per dare l’idea, si aggiravano di norma intor­no alle cinquemila interviste. «Aver superato i 15 mila questionari compi­lati – ammette con un certo orgo­glio Stefano Molina, dirigente di ricer­ca della Fondazione e tra i coordinato­ri del lavoro – significa di gran lun­ga ottenere la più ampia analisi sugli insegnanti mai realizzata in Italia». Non solo: «In questi anni di vacche magre, di assunzioni a tempo indeter­minato se ne sentono poche. Qui, in­vece, parliamo di 50 mila ingressi in ruolo nel 2008, 25 mila nel 2009: stia­mo parlando del più grande fenome­no italiano di immissione a tempo in­determinato nel mondo del lavoro. E il paradosso è che finora non si sape­va bene chi fossero, queste persone: il meccanismo di reclutamento è un po’ opaco, lo stesso ministero ne co­nosce la classe di abilitazione, non i titoli di studio...». I titoli di studio, ecco. Quella lau­rea che manca, ancora, al 40,7% degli intervistati. I picchi sono, ovviamen­te, nei primi ordini di scuola: nessun «pezzo di carta» per il 75,6% dei «nuo­vi » maestri d’asilo e per il 66,9% degli insegnanti delle primarie. Il motivo? Presto detto: «Si sta raschiando il fon­do del barile delle graduatorie – è la sintesi efficace di Molina ”. I neoas­sunti arrivano, per la metà, dalle gra­duatorie di concorso: ma l’ultimo è del 1999, e queste sono persone che si trovavano in una posizione così bassa da vedersi passare davanti, ne­gli anni, moltissimi altri colleghi. L’al­tra metà, invece, viene dalle gradua­torie ad esaurimento, in questo mo­mento chiuse: supplenti che hanno avuto l’abilitazione in stagioni diver­se, con regolamenti diversi». Inse­gnanti del futuro, ma già da rottama­re? Certo che no, anzi: «Stiamo par­lando di professionisti che in media hanno superato i 40 anni di età, di cui quasi 11 di precariato. E se i titoli non sono sempre brillantissimi, han­no una buona esperienza e un’anzia­nità di servizio che sopperiscono in parte alla formazione iniziale inade­guata ». Perché poi, in questo quadro a for­ti chiaroscuri che ritrae l’ultimo batta­glione schierato nelle aule italiane, spiccano dei dati incontestabilmente positivi. «Nel corso degli anni – con­ferma Laura Gianferrari, dirigente dell’Ufficio scolastico regionale per l’Emilia-Romagna e coordinatrice in­sieme a Molina – abbiamo avuto la sorpresa di trovare sempre più la rap­presentazione di un lavoro che ha un’attrattività forte, che dà soddisfa­zione agli insegnanti. Nonostante al­cuni aspetti ben noti: la retribuzione bassa, il riconoscimento sociale che non viene avvertito, gli anni di preca­riato ». E in effetti, se l’80% dei neoassunti ribadisce di aver fatto una scelta «per passione», ben il 95% – un dato in crescita rispetto al 2008 – rifarebbe la stessa scelta. I motivi di soddisfa­zione: il lavoro con i ragazzi (93%), l’interesse per la disciplina (89%), la consapevolezza della propria utilità sociale (84%). Il livello retributivo, per contro, è ritenuto soddisfacente solo nell’11,7% dei casi, mentre il rico­noscimento sociale si ferma al 31,1% – con picchi positivi al Sud: oltre il 40% in Campania, poco sotto in Pu­glia. Il problema vero, però, è un altro. Le nuove tecnologie Nelle superiori il 49% dei docenti appena assunti ammette di non conoscere a sufficienza computer e Web Il giudizio «Per la prima volta chi sta in cattedra si sente fortemente inadeguato, soprattutto nel rapporto con gli allievi» E va sotto il nome di «difficoltà nel­l’insegnare ». Una sensazione «in au­mento » e «fortemente trasversale», commenta l’economista Andrea Ga­vosto, direttore della Fondazione Agnelli. «L’impressione è che forse per la prima volta gli insegnanti italia­ni inizino a sentirsi fortemente inade­guati, soprattutto nel rapporto con gli allievi: c’è la percezione di un diva­rio generazionale, tecnologico, di vi­ta e di apprendimento, e loro non sen­tono di avere tutti gli strumenti per affrontarlo». Soprattutto, dati (nuova­mente) alla mano, nelle scuole supe­riori: il 63% degli intervistati confes­sa problemi nel gestire la multicultu­ralità in classe, il 55% non sa interagi­re come vorrebbe con i genitori. Per­sino lavorare in équipe, per il 48% dei neodocenti, è complesso. «Il punto – prosegue Gavosto – è che il meccanismo di formazione produce una tipologia di insegnante sempre uguale a se stessa, che però inizia a rendersi conto di non essere più quello che serve ai ragazzi di og­gi ». E in questo senso, la programma­zione diventa fondamentale: «Più che annunciare tante riforme, l’obiet­tivo per il Paese dovrebbe essere inve­stire in una scuola di qualità. Sulla formazione iniziale, ad esempio: la bozza di regolamento del ministero punta molto su una preparazione di tipo disciplinare, mentre quella peda­gogica è ritenuta sovradimensionata. Bene, gli insegnanti ci stanno dicen­do esattamente l’opposto». Sarebbe il caso di prenderne atto. Piergiorgio Odifreddi: pochi laureati insegnano questa materia «I nostri studenti, orfani della matematica» Sugli oltre 15 mila neoassunti che hanno rispo­sto all’indagine della Fondazione Agnelli, solo il 4% ha una laurea in Matematica. E di quelli che, tra loro, insegnano questa materia in una scuola media, solo il 10% ha un titolo di studio corri­spondente; il 47% è laureato in Scienze biologi­che, il 22% in Scienze naturali, il 15% in Scienze geologiche. Va meglio alle superiori: 6 docenti di matematica su 10 sono laureati, appunto, in Ma­tematica. Piergiorgio Odifreddi, matematico: come mai così pochi «specialisti» in cattedra, nel vo­stro settore? «Innanzitutto perché ci sono pochi laureati. La facoltà di Matematica non è tra le più gettonate in Italia, e l’offerta di lavoro supera di molto la domanda. Anche dalle indagini fatte da noi, a To­rino, risulta come per un matematico sia facilissi­mo trovare impiego: a 6 mesi dalla laurea il 50% lavora, dopo un anno la totalità. Gli sbocchi? Dal­le banche all’industrie. Non tutti, dunque, scelgo­no di insegnare; e i posti disponibili vanno inevi­tabilmente coperti da altri». Questo può avere qualche ripercussione sul­l’insegnamento? «In parte credo di sì: la matematica vista da un ingegnere (o un fisico, o un economista) è, con tutto il rispetto, molto diversa da quella vista da un matematico. I primi, di norma, preferiscono quella applicata; l’ingegnere tende a fare molti calcoli, a risolvere quesiti pratici. Il matematico invece ha una sensibilità per l’aspetto teorico, la parte più culturale. Il problema vero, però, ri­guarda più gli studenti che i prof». In effetti, le performance dei ragazzi italiani nei test di matematica Pisa-Ocse sono notoria­mente poco confortanti. «Prima ancora di questo, c’è un dato di fatto da considerare: è dimostrato che l’attitudine per il pensiero logico-deduttivo si sviluppa compiu­tamente verso i 13-14 anni. Quindi, per insegna­re matematica prima, si va in ’controtendenza’, si combatte una specie di resistenza biologica». Ancora più difficile, per chi insegna. Una via d’uscita? «Esistono corsi di specializzazione sulla didat­tica della matematica, per chi all’università già si orienta in questa direzione; è una tradizione che arriva, tra l’altro, anche dai Paesi anglosassoni, e un’opportunità che sicuramente manca a chi pro­venga da altre facoltà. Però direi che la soluzione non sta tanto nei corsi, quanto nella capacità di presentare la matematica in maniera più giocosa e accattivante. L’esperienza dei vari festival – il nostro della Matematica, quello della Scienza di Genova – ha dimostrato che funziona; bisogne­rebbe generalizzarlo anche nelle scuole. Negli Usa, la tendenza è quella di lasciare che i bimbi e gli adolescenti sviluppino i propri interessi e ca­pacità: ’farli fare’ più che farli ripetere. Da noi, l’opposto. E sì che i nostri studenti sono quelli che, dati alla mano, passano a scuola più ore. Co­me diceva Lenin (ride) , ’meglio meno, ma me­glio’...». L’Italia, insomma, non sembra un Paese per matematici. «Io credo che il nostro Paese non educhi alla razionalità, di cui la matematica è la quintessen­za. Dalla Sindone di Torino al sangue di San Gen­naro, da noi l’irrazionalità è istintiva; è lo svilup­po razionale ad essere meno incentivato. L’allena­mento alla razionalità viene delegato a quelle 4­5 ore di matematica a scuola; e anche nell’ambien­te culturale, l’attenzione per l’umanesimo è do­minante. In Italia non c’è una grande tradizione matematica: di medaglie Fields (il Nobel del set­tore, ndr ) ne abbiamo una, Enrico Bombieri, che però vive negli Usa. La Francia, per dire, ne ha una decina. Forse c’è qualcosa che non va, no?».