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 2009  settembre 24 Giovedì calendario

IL CASO FIDEURAM E I DUBBI SULLE SCELTE DELLA FIAT


In altri tempi, la manifestazione d’interesse per Banca Fideuram, fatta pervenire dall’Exor degli Agnelli al gruppo Intesa Sanpaolo, sarebbe stata ordinaria amministrazione. Oggi non è così. La richiesta di aiuti pubblici per l’auto da parte della Fiat e l’offerta di costosi aiuti di Stato alle banche da parte del governo sono circostanze straordinarie che cambiano le vecchie regole del gioco e creano nuove, possibili convenienze.

Si tratta di convenienze capaci di mettere alla prova, non di rompere, perfino la compattezza delle fondazioni di Intesa Sanpaolo, l’italianissi­mo cuscinetto tra pubblico e privato.

Cominciamo dal mondo Fiat-Exor. A differen­za di altre dinastie dell’automobile, gli Agnelli hanno sempre evitato di concentrare le risorse in Fiat. La possibile acquisizione di Fideuram, per dire, ha un precedente nella vecchia joint-venture con il Monte dei Paschi per i fondi Prime. Ma la storia dimostra che la diversificazio­ne degli interessi degli Agnelli, peraltro legitti­ma, non ha fatto bene alla Fiat e, probabilmente, nemmeno a loro se è vero che quanto Giovanni Agnelli evitò di mettere in Fiat quando avrebbe dovuto è stato messo poi, in misura forse supe­riore, dai suoi eredi per non essere trascinati nel gorgo.

Gli anni di ferro, tra il 2002 e il 2005, sembra­no remoti, grazie a Sergio Marchionne. E oggi la provvista di liquidità in Fiat è stata fatta grazie ai corporate bonds resi convenienti dall’artificia­le riduzione dei tassi a opera delle banche cen­trali. La semestrale, migliore del previsto, racco­glie il plauso di Mediobanca. Ma c’è un proble­ma di domanda, radicale per tutti. Tanto che la Fiat chiede la proroga degli incentivi pubblici. Ora, una tale richiesta non è un’eresia, special­mente quando la pratica è universale. Il gover­no, tuttavia, non ha il dovere di dire di sì a scato­la chiusa. Può porre condizioni, non foss’altro perché l’alimentazione forzosa della domanda aiuta sì a salvaguardare i posti di lavoro, ma an­che le quotazioni del titolo. Quanto più gli Agnelli e la Fiat sono coesi e impegnati sul fron­te industriale, tanto meno la trattativa potrà es­sere condizionata dal conflitto tra governo e le cosiddette elite.

Benché a Marchionne siano riconosciute com­petenza e onestà in dosi tali da farne l’Imperato­re delegato, come dice un vecchio banchiere che molto lo stima, tra Fiat ed Exor il nesso è eviden­te. Nei momenti duri è stato l’impegno delle hol­ding a integrare lo sforzo delle banche a soste­gno dell’azienda e del suo management. Ora Marchionne dice che Fiat e Chrysler faranno 6 milioni di automobili. Poiché la capacità produt­tiva installata è inferiore, con quali soldi si co­struiranno i nuovi stabilimenti? E con quali con­seguenze quando un quarto della capacità pro­duttiva mondiale già risulta di troppo? E’ possibi­le che la scommessa non esiga anche capitale di rischio?

Certo, la Borsa impone all’Exor uno sconto del 50% sul valore di mercato delle attività. Al titolo, nel breve periodo, un’indovinata diversificazio­ne farebbe bene. Ma nel lungo termine gli Agnel­li vogliono essere industriali o finanzieri? En­trambe le opzioni sono legittime, ma nessuna delle due è gratuita. L’Exor ha in cassa un miliar­do che deriva da debiti a lungo termine di egua­le importo. Erano stati accesi per poter fare inve­stimenti fuori da Fiat in un’epoca nella quale il debito non faceva paura a nessuno. Ma quando Marchionne lanciò l’operazione Opel, John Elkann disse che, se del caso, l’Exor non si sareb­be tirata indietro. Ora i 6 milioni di auto si do­vrebbero fare comunque in un modo comunque oneroso. Ma nemmeno la finanza è comoda.

Una holding a controllo familiare può ben comprare una banca. In questo caso,l’acquisizio­ne è lungi dall’essere definita. Se e quando lo fosse, dovrebbe essere portata alla Vigilanza che dà o nega l’autorizzazione all’acquisto di parteci­pazioni superiori al 5% di un soggetto vigilato qual è Fideuram. E’ possibile comprare una ban­ca con capitale di debito? Il buon senso suggeri­sce di rispondere: dipende. Per le agenzie di ra­ting è accettabile il debito netto di una holding quando non superi il quinto del valore netto di mercato delle attività, il quale, però è influenza­to dalla Borsa. Fideuram non ha bisogno di au­mentare il capitale, già solido, e può destinare a dividendi una quota elevata dei propri utili, sti­mabili in circa 200 milioni l’anno. Se investirà un miliardo, Exor starà nei limiti delle agenzie. Se sarà di più, dovrà vendere qualche altro be­ne. Ma la Banca d’Italia ragiona come un’agen­zia di rating?

Nel frattempo, Fideuram è diventata materia di discussione tra i soci eccellenti di Intesa Sanpaolo, che da mesi l’aveva inserita nella lista delle attività ricollocabili per rafforzare il patri­monio. Una discussione informale, non ancora approdata ai consigli, che rischia di diventare il nuovo teatro delle tensioni, rese più acute dal rinnovo delle cariche di primavera, tra la Compa­gnia di San Paolo, presidente Angelo Benessia, e i vertici operativi della banca: prima con il presi­dente del consiglio di gestione, Enrico Salza, tori­nese e partner di Giovanni Bazoli nella fusione per evitare il Sanpaolo finisse al Santander e Inte­sa al Credit Agricole; poi con l’amministratore delegato, Corrado Passera.

L’avvocato Benessia interpreta il malessere di una parte dell’ establishment torinese per l’ege­monia di Milano su Intesa Sanpaolo. Un’insoddi­sfazione alla quale il sindaco Sergio Chiampari­no, grande elettore di Benessia, offre una pro­spettiva generale quando esorta a riconoscere al­la Compagnia un peso proporzionato al 10% del capitale che possiede e pone il problema di un eccesso di poteri in capo a Passera. In Comune circola anche l’idea che i Tremonti bond, in fon­do, possano servire per aumentare il credito alle imprese, con ciò creando un asse con il ministro dell’Economia nonostante le diverse appartenen­ze politiche. Ma nessuno, almeno finora, offre un’analisi sulla raccolta e gli impieghi per territo­ri nel corso degli anni e in relazione all’andamen­to del mercato, così da verificare seriamente l’at­tività della banca. Al momento si parla soprattut­to di potere, di identità locali. E questo fatto, pa­radossalmente, può rendere più agevole la ri­composizione. Del resto, il comitato di gestione della Compagnia non è compatto. Non manca chi non ha condiviso i tentativi di alleanza, avvia­ti senza l’appoggio delle altre fondazioni ma non conclusi con il Credit Agricole e le Generali, a proposito delle quali Benessia ha incontrato, ma senza risultati, Cesare Geronzi, presidente di Me­diobanca. Lo stesso Benessia, osservano a Tori­no, non si è spinto fino al punto di rompere il fronte delle fondazioni che ha in Giuseppe Guz­zetti il leader riconosciuto non per la caratura del pacchetto Cariplo ma per la capacità dell’uo­mo di rappresentare un mondo complesso, colla­borando con il governo ma senza farsene stru­mento cieco.

Il filo del rapporto tra delle fondazioni va ri­componendosi. Martedì a Milano i loro leader si sono ritrovati in modo riservato per ascoltare il presidente del consiglio di sorveglianza, Giovan­ni Bazoli, che cura i rapporti tra i soci della ban­ca.

A Torino si aspettano che, senza cambiare la leadership operativa, il poter venga un po’ più distribuito. La direzione generale lasciata libera da Pietro Modiano potrebbe aiutare. Ma la prova del nove sarà martedì 29 settembre quando si dovrà scegliere se emettere o non emettere i Tre­monti bond.

Passera, sempre forte del pieno appoggio di Bazoli, ha chiarito che quella decisione resta di­sgiunta da Fideuram. di cui nessun organo ha an­cora discusso. Secondo il quotidiano Mf , l’ipote­si Agnelli sarebbe già caduta. La partita, in real­tà, resta aperta non foss’altro perché le procedu­re di trasparenza previste dalla legge, avendo l’Exor i suoi rappresentanti nei consigli di Inte­sa, richiedono tempo. Vendesse Fideuram al va­lore di carico (2,5 miliardi), Intesa aumentereb­be di 2 miliardi il patrimonio di vigilanza. Ma è difficile che rinunci a un guadagno sensibile, e ad aumentare ancor più le sue riserve, magari ac­certando se non ci siano pretendenti più genero­si degli Agnelli. Se, come sembra, Unicredit, si orienterà verso l’aumento di capitale, Intesa Sanpaolo potrà trovare nelle dismissioni - ne ha per un potenziale di 8-10 miliardi - l’alternativa a quello e all’aiuto di Stato. Che costa l’8,5% inde­ducibile, e cioè il 12 reale, e apre le porte delle banche alla politica. Enrico Salza, presidente del consiglio di gestione, disse: «Piuttosto il gover­no ci nazionalizzi». Era la sfida di un vecchio li­berale sicuro di farcela. Ma il 29 settembre è an­cora lontano.