Antonio D’Orrico, Corriere della sera 23/09/2009, 23 settembre 2009
VISTO, NON SI STAMPI TUTTI GLI ERRORI DEGLI EDITORI
Proust snob, Joyce un liceale, Calvino infantile
Davvero gli editori hanno avuto sempre torto bocciando libri che poi sono diventati capolavori? Davvero aveva torto il consulente di Fasquelle (super marchio editoriale della Francia primi Novecento) che, dopo aver letto il manoscritto del futuro primo volume di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, confessò di non capire perché «un individuo abbia bisogno di trenta pagine per descrivere come si rivolti nel letto prima di riuscire a dormire»?
E aveva torto Virginia Woolf, che pure torto ebbe tante volte, quando rifiutò Ulisse di Joyce per la sua casa editrice Hogarth Press e definì lo scrittore «un liceale a disagio che si gratta i foruncoli»? Ulisse resta un monumento della narrativa novecentesca ma è indubbio che molte sue pagine, compreso lo stupendo monologo finale di Molly, sembrano ispirate dalle fantasie di un liceale a disagio con problemi di foruncoli. E forse l’impervio Finnegans Wake , approdo finale e inattraccabile dell’arte joyciana, non è che la manifestazione estrema di quel disagio adolescenziale.
E avevano torto il potente editore americano Alfred Knopf, la moglie Blanche (sua prima assistente) e il suo valoroso caporedattore Harold Strauss, quando arrivarono alla conclusione che «non c’era nessun vantaggio artistico» a pubblicare i diari di Anaïs Nin? Oppure quando liquidarono il pur rispettabile Isaac Bashevis Singer con l’osservazione «anche questo parla di Polonia e di ricchi ebrei», a sottolineare una certa ripetitività della letteratura yiddish?
Non c’è divertimento maggiore che sbeffeggiare gli abbagli di cui si sono macchiati editori (ed editor ).
La caccia ai loro errori è uno degli sport letterari più praticati. Vittorini che bocciò Il Gattopardo e fu recidivo perché lo fece in due occasioni per editori diversi. Gide che rifiutò Proust. Tutti gli editori italiani (nessuno escluso) che rimandarono puntualmente al mittente i manoscritti di Guido Morselli (scoperto poi quando ormai era morto da Adelphi). Tutti gli editori americani (nessuno escluso) che cestinarono Lolita di Nabokov. La caccia agli errori degli editori è quasi un genere letterario se si pensa che ci sono almeno tre libri che trattano la questione. Uno è Rotten Rejections di André Bernard (in italiano: Spiacenti, non ci interessa ). L’altro è Mi hanno detto no di Gilberto Finzi e Grazia Livi. Questi due sono di difficile reperibilità, fortunatamente il terzo, Il gran rifiuto di Mario Baudino, è stato meritoriamente appena ripubblicato da Passigli (pp. 160, e 14) a 18 anni dalla prima edizione.
L’idea che editori (ed editor ) siano degli incompetenti assoluti ha una sua importante e utilissima funzione sociale e psicologica perché perpetua la grande ed eterna illusione che siamo tutti dei grandi scrittori incompresi (dal Vittorini o dal Gide di turno). Ma, diritto di autoconsolazione a parte, non sempre quegli editori e i loro collaboratori avevano tutti i torti. Perché se è vero che Joyce aveva del liceale infelice, allora questo giudizio ci dice molto non solo su di lui ma sulla letteratura del secolo scorso e, addirittura, sulla letteratura in genere (che sia soltanto uno sfogo di liceali affetti da foruncolosi?).
Così se è vero, come riteneva Gide, che Proust aveva modi, pensieri e gusti di uno della cerchia dei Verdurin, cioè di «uno snob, un mondano dilettante», allora si capirà meglio la religione dello snobismo che ha imperversato e imperversa ancora (imperverserà sempre?) nella società colta. A Proust è accaduto quello che accadde ad Alberto Sordi: partito per criticare i suoi personaggi ha finito per esaltarli. Ha fatto dei Verdurin un modello di comportamento.
Qui non si vuole tessere l’elogio degli editori, categoria professionale bistrattata quasi quanto quella degli arbitri di calcio, ma chiedersi se non sia venuto il momento di abbozzare una controstoria della letteratura basandosi non più sui saggi e le recensioni dei critici ma su quelle tanto dileggiate lettere di rifiuto con cui editori ( ed editor ) hanno respinto le grandi firme del romanzo.
La nostra controstoria comincia da un grandissimo come Italo Calvino che fu bocciato nel 1949 da Elio Vittorini (sempre lui) per il romanzo Bianco veliero . Vittorini così lo stroncò: «C’è una gran fretta da bambocciata. C’è infantilismo e basta». Calvino bamboccione ante litteram? Forse dargli da bamboccione è esagerato, però Vittorini coglieva nel segno: c’è una bambineria calviniana (nei suoi «Marcovaldi» e «Visconti dimezzati »). La Woolf avrebbe visto in lui il fratello minore del liceale foruncoloso di Joyce.
Visto il lamento generale e ricorrente sulla morte della critica letteraria, converrà affidarsi d’ora in poi alla critica editoriale. Siamo pronti a scommettere che nessun recensore in attività troverà mai una formula più efficace e sintetica di quella usata dal redattore della Bompiani che definì «interessante ma troppo ambizioso » Dissipatio H. G ., il romanzo apocalittico di Guido Morselli. un giudizio che si può estendere probabilmente al complesso dell’opera di Morselli (e spiegherebbe anche le sue dolorosissime peripezie editoriali).
Se gli scrittori avessero seguito i consigli di editori (ed editor ) avremmo avuto, ad esempio, un Signore degli anelli di Tolkien molto più corto e più leggero. Un Georges Bataille meno sculettante «davanti all’irrazionale » (l’immagine, perfetta, è di Bobi Bazlen). Un Milan Kundera meno artificioso. E, infine, dando retta agli editori, avremmo avuto un capolavoro che invece non abbiamo avuto. Fu quando Vladimir Nabokov fece orecchie da mercante di fronte all’editore americano che gli suggeriva di tramutare « Lolita in un ragazzino di dodici anni, facendolo sedurre da Humbert, un contadino, nella stalla; il tutto ambientato in luoghi poveri e narrato con frasi concise, forti, scolastiche ».
Ah, Nabokov, perché non ha seguito quel consiglio! Ci avrebbe dato Lolito, opera imperitura che avrebbe sbarrato la strada, con la forza della sua ironia, alla retorica gay che da Leavitt in poi permea di tedio politicamente corretto il romanzo contemporaneo.