Egidio Bandini, Libero 22/09/2009, 22 settembre 2009
E LA CIA NEGO’ L’OSCAR A DON CAMILLO
Ci mancava solo la Cia. Giovannino Guareschi, nella sua carriera di giornalista, disegnatore e polemista, spesso si è cacciato nei guai, anche se sosteneva che fossero direttamente i guai a cacciare lui. Ebbe grossi problemi con il Minculpop (Ministero per la cultura popolare) ai tempi del Ventennio, quando disegnava e scriveva sul ”Bertoldo” irridendo molto spesso il regime. Si mise nei guai ancora nel 1942, questa volta con la polizia fascista, che gli fece trovare su un verbale tutto ciò che, con un tono di voce tale da farsi udire anche fuori Milano, aveva detto a proposito della guerra, del regime e di tutto il resto dell’Italia mussoliniana una notte, tornando a casa dopo aver saputo che suo fratello Pino era disperso in Russia. Finì di nuovo nei pasticci con i tedeschi, il 9 settembre del 1943 allorché, su precisa richiesta del comandante del reparto corazzato che aveva preso la caserma di Alessandria dove Giovannino prestava servizio come sottotenente d’artiglieria, rispose che non intendeva aderire alla Repubblica Sociale e si ritrovò in un lager vicino Varsavia, in Polonia.
Poi inciampò, sono parole sue, in due pezzi grossi: prima Luigi Einaudi, che gli fece rimediare una condanna a otto mesi di carcere (sospesa con la condizionale) per aver permesso a Carletto Manzoni di ritrarre in una vignetta il presidente mentre passava in rassegna i suoi corazzieri, costituiti da due lunghe file di bottiglie di Nebiolo recanti l’etichetta ”Poderi del Senatore Luigi Einaudi”; quindi Alcide De Gasperi, che il carcere glielo fece fare davvero, per 409 giorni (appiccicarono a Guareschi anche la condanna del Nebiolo), a causa della pubblicazione su ”Candido” di due lettere con le quali il futuro premier chiedeva dal Vaticano agli Alleati di bombardare la periferia di Roma. Si mise, infine, nei guai con tutta o quasi la stampa italiana, un po’ perché aveva offeso De Gasperi, un po’ perché De Gasperi si era offeso, un po’ perché i suoi libri avevano ottenuto uno straordinario successo internazionale.
Ma di essere finito nelle peste con la Cia (sì, avete capito bene: la Central Intelligence Agency americana) Giovannino non se lo sarebbe mai aspettato e, per buona sorte sua, probabilmente non lo ha mai saputo.
Il fatto risale agli inizi del 1953. A Hollywood l’Academy of Motion Pictures Arts and Sciences sta discutendo su quali siano i film da inserire nelle nomination per l’Oscar di quell’anno. Ebbene, ai primi posti nella lista per l’Award onorario destinato al miglior film straniero c’era ”The little world of don Camillo”, versione americana del primo film tratto dai racconti guareschiani con la regia di Julien Duvivier, che aveva avuto un grandissimo successo nelle sale americane, complice, forse, anche il fatto che la voce narrante fosse quella del grande Orson Welles.
Ufficio censura
A Hollywood esisteva, presso la Paramount, un Ufficio censura nazionale ed estera, ai vertici del quale stava un certo Luigi G. Luraschi, italo-inglese che, oltre a essere il responsabile del benestare alla proiezione di certi film negli Stati Uniti, era anche il contatto della Cia nel dorato mondo hollywoodiano. Luraschi era, insomma, colui che doveva segnalare la pericolosità, soprattutto a livello politico, di certi lungometraggi e fare in modo che, qualora fossero produzioni ancora in nuce, non vedessero mai il primo giro di manovella, e, qualora fossero film già in programmazione, non ottenessero alcun riconoscimento, da parte della critica ufficiale e, men che meno, venissero premiati.
Di come andarono le cose ci informa il giornalista David N. Eldridge, che racconta, appunto, di come Luraschi fece in modo di estromettere il film ”The little world of don Camillo” dalle nomination all’Oscar 1953: «Sfruttando la sua posizione all’interno dell’Academy, Luraschi si adoperava affinché i film di matrice leftwing, ovvero di sinistra, o ”sospetti” già prodotti non ottenessero vasti riconoscimenti o guadagnassero l’appoggio dell’industria (cinematografica, ndr). Dichiarò di essere stato determinante nell’assicurare che ”Mezzogiorno di fuoco” fosse alla fine passato nella categoria dei migliori film per l’Academy Award e suscitò forti dubbi a proposito dell’Oscar come miglior film straniero a ”The little world of don Camillo” di Julien Duvivier. Comunque, prestò anche grande attenzione affinché i film contenenti espliciti messaggi anti-comunisti fossero trattati con cautela, rispondendo ai dettami della Cia che la cultura americana doveva essere usata per esportare i ”valori americani” contrapponendo il capitalismo democratico come alternativa ideologica al comunismo sovietico.
Nella lettera 14 (dell’archivio Margaret Merrick Library) pone l’attenzione su ”Francesco giullare di Dio” di Roberto Rossellini, l’adattamento di Duvivier del ”Mondo piccolo di don Camillo” di Giovannino Guareschi e la potenziale produzione de ”La figlia di Jorio” di Gabriele D’Annunzio. Tutti film italiani e tutti, dichiarò, anticlericali nei toni o nel contenuto.
Uno dei primi timori nella Guerra Fredda fu quando il Partito comunista venne battuto di stretta misura nelle elezioni italiane del 1948. Così Luraschi si preoccupava evidentemente delle vie attraverso le quali i comunisti potevano usare i problemi sociali evidenziati in alcuni film come propaganda antiamericana. Era incline a prendere le parti dell’Ufficio Cattolico Internazionale per il cinema che ancora nel 1953 avvertiva i produttori che ”se avessero presentato un ritratto degenerato dell’Occidente, avrebbero aperto le porte alla propaganda comunista. Molte persone avrebbero cominciato a credere che, se la rigenerazione morale non fosse considerata possibile, si poteva guardare ad Oriente”». Insomma, Luraschi, cattolico, si direbbe oggi, fondamentalista, non solo riteneva troppo a sinistra il ”Don Camillo”, ma addirittura bollava il film come anticlericale! Le sue lettere a Owen, il contatto diretto all’interno dell’Agenzia, sono a dir poco emblematiche.
Ecco quella del 23 febbraio 1953: «Caro Owen... Penso che siamo riusciti a lasciare fuori ”The little world of don Camillo”, cosicché non abbia l’Oscar come miglior film straniero. In realtà non credo, personalmente, che il film sia così politicamente pericoloso, ma i Leftists (i giurati dell’Academy simpatizzanti della sinistra, ndr) erano talmente intenzionati a fargli avere la nomination - stavano addirittura facendo una sorta di votazione privata al loro interno - che certamente vedevano un grande vantaggio dal fatto che questo film ottenesse l’Oscar, ecco perché ho lavorato contro il film. Presumo che (ciò che interessava ai Leftists, ndr) sia perché la fine del film potrebbe indicare che sia possibile per i comunisti e gli ”altri” vivere felicemente insieme».
Contrasti superabili
L’uomo della Cia, dunque, vuole escludere il film italiano dall’elenco dei possibili Oscar, perché, a quanto pare, la storia raccontata nel ”Don Camillo” solletica l’interesse dei simpatizzanti di sinistra, lasciando intendere che, in fondo, si poteva trovare un modus convivendi fra comunisti e cattolici, appianando i contrasti.
Ma la certezza di essere riuscito nell’intento Luraschi la ebbe solo dieci giorni prima della cerimonia degli Oscar. Ecco la lettera che scrisse ad Owen il 10 marzo 1953: «Ho fatto un gran lavoro personale con i membri dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences riguardo al premio per il miglior film straniero. In un precedente rapporto ti avevo indicato come i Leftists fossero ansiosi di assegnare il premio a ”The small world of don Camillo” (il titolo è scritto errato nel testo originale, ndr). Volevano accentrare l’attenzione sul fatto che il comunismo e il resto del mondo possono stare insieme. Penso che li abbiamo sistemati. In sostanza abbiamo messo in fila abbastanza persone da indicare con un voto a pioggia che l’Oscar deve andare a ”Forbidden games” (in italiano ”Giochi proibiti” di René Clément che vinse di fatto l’Oscar, ndr), il film francese e non a ”Camillo”.»
Dunque, missione compiuta. Il lungometraggio tratto dai racconti di Guareschi, che erano stati emendati nella traduzione americana da quelli che rendevano simpatica la figura di Peppone e avevano visto anche drasticamente ridimensionati i dialoghi con il Cristo, cosa che non era avvenuta così radicalmente nel film, nonostante la censura operata dai Centri Cattolici Cinematografici, era stato di fatto ”epurato” dalle nomination per gli Academy Awards. Un solo uomo, Luigi G. Luraschi, era riuscito a influenzare la giuria? Stando alle dichiarazioni dello stesso Luraschi parrebbe di sì, ma, in realtà, come scrive Eldridge, l’agente della Cia non era solo, giacché anche una parte della critica statunitense aveva, del lavoro di Duvivier, un’opinione dello stesso segno.
Questo è ciò che apparve nel ”Bosley Crowther’s review” sul New York Times l’11 gennaio 1953: «Un’analisi più accurata del film rivela che il conflitto, nella sua essenza, non è fra dottrine socio-religiose, ma fra le personalità di due uomini caparbi. Mentre il prete (don Camillo, ndr) è chiaramente spinto dal suo intimo sentimento di rettitudine morale e dall’indignazione per l’affermazione dei comunisti nel paese, atteggiamenti che riflettono indiscutibilmente il suo robusto credo religioso e la sua disciplina, egli non è uno specchio fedele delle politiche della Chiesa di Roma. E il sindaco (Peppone, ndr), mentre indossa l’etichetta di comunista, non ha apparentemente legami con lo ”Zio Joe” (nomignolo che gli americani avevano affibbiato a Giuseppe Stalin, ndr). Egli è soltanto un campagnolo dalla testa dura, che vuole essere d’aiuto alla gente del suo paese.
Troppo ottimismo
Ma benché né il prete né il sindaco siano dei veri teorizzatori di ideologie e il conflitto fra questi personaggi forti sia fatto solo di contrasti causa il loro orgoglio e zelo personali, eliminando così ogni significato politico, rimane una grande pretesa di buon insegnamento in questa felice filosofia. A causa di tutto ciò, il messaggio che esce da questo divertente film è che la gente sia, sostanzialmente, onesta e amichevole, nonostante i pregiudizi radicati e gli stimoli egoistici che ha». Ovvero, che i comunisti e gli ”altri”, come affermava Luraschi, possono vivere felicemente insieme.
Dunque, dovremmo concludere che ciò che rimproveravano a Guareschi i comunisti italiani, fosse gradito ai loro colleghi Leftists americani e, perciò, checché ne dicesse Giovannino, avrebbe ragione Claudio Magris quando afferma che Guareschi, in fondo, poteva anche essere considerato comunista. Almeno di là dall’Atlantico.