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 2009  settembre 22 Martedì calendario

MASSIMO SALVADORI PER DELL’ARTI

SALVADORI MASSIMO Ivrea (Torino) 23 settembre 1936. Storico. Docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Torino, studioso del Novecento. Tra i suoi libri: Il mito del buon governo. La questione meridionale da Cavour a Gramsci (Einaudi 1960), Gramsci e il problema storico della democrazia (Einaudi 1970), più di recente Dai padri fondatori a Roosevelt (Laterza 2005), L’idea di progresso (Donzelli 2006).
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DAL SITO LATERZA (AGGIORNATO 2009):

Massimo L. Salvadori è professore emerito dell’Università di Torino. stato Visiting Professor alla Columbia University e alla Harvard University. Collabora a ”Repubblica”. Tra le sue pubblicazioni, alcune delle quali tradotte in inglese, francese, tedesco, spagnolo e giapponese, le più recenti sono L’idea di Progresso. Possiamo farne a meno? (Roma 2006) e Italia divisa. La coscienza tormentata di una nazione (Roma 2007), Democrazia senza democrazia (2009).

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ULTIMO LIBRO: ”DEMOCRAZIA SENZA DEMOCRAZIA” - 2009 LATERZA
DAL SITO LATERZA:

Chi ha oggi un maggiore spirito democratico? Colui che si accontenta, o chi non si accontenta dello stato di salute delle nostre democrazie?

«Nulla può tanto danneggiare la democrazia e contribuire al suo esaurimento quanto accettarla come discorso retorico, non guardare alla sostanza che sta dietro alla sua forma, compiacersi del dato che mai come ora vi sono nel mondo tanti Stati che portano e si danno il nome di democratici, ma in cui troppi poteri di primaria importanza per la vita dei cittadini sono stati sottratti alle istituzioni figlie del voto popolare, troppi poteri formalmente attribuiti a siffatte istituzioni sono sostanzialmente depotenziati e al limite annullati da altri poteri. Se dunque i regimi che continuiamo a chiamare democratici in effetti non lo sono, quale definizione conviene loro più propriamente? Parlare di postdemocrazia serve certo a sottolineare una differenza, e a capire che siamo in un ”dopo’. Tuttavia occorre anche cercare di comprendere ”in che cosa siamo’. Questo è il problema aperto.»

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RECENSIONE DI LUCIANO CANFORA:
Il Corriere della Sera - lunedì 29 giugno 2009

Ricette per la democrazia malata
Il recente volume di Massimo L. Salvadori, Democrazia senza democrazia (Laterza), costituisce il punto di arrivo della riflessione di uno storico che ha dato le sue migliori prove in vari ambiti della ricerca, tra i quali però non è difficile scorgere un filo conduttore o, meglio, una connessione tematica che è riconducibile pur sempre alla questione, centrale e dominante, del senso e del contenuto della moderna democrazia politica. Ciò vale sia per gli studi sulla socialdemocrazia tedesca e sulla importante figura di Karl Kautsky e i connessi lavori sulla contrapposizione tra socialdemocrazia e bolscevismo nel Novecento sia per gli studi sugli Stati Uniti di America al tempo della guerra di Secessione e il cosiddetto modello greco a Charleston. Dicevamo «punto di arrivo», beninteso provvisorio come è ovvio in ogni percorso di ricerca di lunga lena: infatti la riflessione affidata a questo agile e chiaro volumetto potrebbe definirsi un bilancio intorno al sostanziale fallimento e all’ingannevole autorappresentazione dei cosiddetti sistemi democratici o meglio democratico-parlamentari.

«La democrazia – scrive Salvadori in apertura – è venuta ad assumere il carattere di un sistema che ha riconsegnato per aspetti cruciali il potere a nuove oligarchie, le quali detengono le leve di decisioni che, mentre influiscono in maniera determinante sulla vita collettiva, sono sottratte a qualsiasi efficace controllo da parte delle istituzioni democratiche». «Si tratta – prosegue – sia di quelle oligarchie che, titolari di grandi poteri, privi di legittimazione democratica, dominano l’economia globalizzata, hanno nelle loro mani molta parte delle reti di informazione e le pongono al servizio degli interessi propri e dei loro amici politici; sia delle oligarchie di partito che in nome del popolo operano incessantemente per mobilitare e manovrare quest’ultimo secondo i loro intenti; sia dei governi che tendono programmaticamente a indebolire il peso dei parlamenti (...) e soggiacciono all’influenza del potere finanziario e industriale, diventandone in molti casi i diretti portavoce e gli strumenti». Non si potrebbe dir meglio.

Nel seguito, Salvadori pone in luce opportunamente la mutazione che si è venuta realizzando nella seconda metà del Novecento, quando osserva che, nella «democrazia dei partiti» affermatasi in Europa all’indomani della fine dei fascismi, «i partiti di massa organizzavano i loro iscritti, li coinvolgevano in maniera permanente nel processo politico (...) attribuendo loro un ruolo di partecipazione» (p. 63). Ed in effetti non sarebbe improprio tracciare una linea evolutiva, a partire dalla crisi dei sistemi «liberali» intorno alla Prima guerra mondiale (lucidamente smascherati nella loro natura oligarchica dalle analisi dei grandi esponenti della teoria elitistica a cavallo tra Otto e Novecento). Tale crisi sfociò negli opposti esiti del fascismo e del bolscevismo. I due opposti esiti parvero incontrarsi nel 1939; ma la ben diversa «grande alleanza» che portò alla vittoria del 1945 favorì anche un «nuovo inizio» nella storia della democrazia: la instaurazione cioè di sistemi democratici di tipo nuovo e che si volevano effettivamente tali (da un lato le costituzioni europee continentali del secondo dopoguerra, dall’altro le cosiddette «democrazie popolari»). Orbene è appunto della parallela crisi di queste nuove forme che si è dovuto via via prendere atto: le une (est-europee) fallite per l’incapacità di attivare e tener desto autentico consenso, le seconde, quelle «nostre», finite – quale più quale meno – nella situazione che Salvadori così efficacemente descrive.

Qual è il punto che merita maggiore approfondimento? Non già il legittimo auspicio di un ritorno a sistemi migliori (nella storia non ci sono mai «ritorni» e nessuna «restaurazione», per dirla con Gramsci, fu mai totalmente tale), ma la questione se non si debba prendere atto che il ciclo storico della democrazia di tipo elettivo-parlamentare-rappresentativo si è sostanzialmente concluso. Ond’è che ci si parano davanti due strade: o continuare a fingere di prendere sul serio l’autorappresentazione di tali sistemi ormai definibili come ex democratici («pur nel contesto – scrive Salvadori – di una incessante, assordante ritualità democratica e santificazione ideologica della democrazia») ovvero guardare in faccia la realtà, rifarsi alle menti più lucide che questo processo intravidero e descrissero (Gaetano Mosca, Roberto Michels, Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere 13, § 30) e interrogarsi sui modi (prevedibili già ora?) di intervenire nella situazione data, avendo di mira la formazione di altre élite in grado, per capacità e preparazione, di sostituire quelle autoreferenziali (ben protette dalla messinscena elettoral-democratica).

Gramsci, nel brano che si è appena ricordato, scrivendo verso la fine del 1932, riteneva di riconoscere la via d’uscita nel sistema elettorale sovietico: elezioni su «programmi di lavoro concreto»; distinzione tra «comune cittadino legale», cittadino «amorfo», «elettore che si impegna su programmi concreti» e di fatto si arruola come «funzionario». Noi sappiamo che, al di là di innegabili successi, quella soluzione è fallita ed anzi è stata sostituita da un elezionismo farsesco sorretto da un capitalismo selvaggio e mafioso (la Russia attuale).

Ciò non significa che c’è solo da pronunciare il de profundis sulla fine, acclarata, dei modelli otto e novecenteschi di «democrazia». Non giovano gli autoinganni. Il lavoro, semmai, si sposta sempre più sul piano scientifico e culturale: è dai luoghi di formazione che probabilmente verranno nuove élite, le quali legittimamente aspireranno alla direzione delle società avanzate e sempre meno saranno disposte a porre la loro intelligenza al servizio di poteri egoistico-autoreferenziali.

Un antesignano, utopista forse, al tempo suo, fu Adriano Olivetti. Un antecedente di gran lunga più remoto fu l’ateniese Platone (con buona pace delle semplicistiche analisi di Karl Popper) quando intravide una leadership di «filosofi-reggitori» (per usare il suo linguaggio mitizzante) che è stato sempre troppo facile criticare. Viene in mente la sentenza di Aristotele, che pure dissentiva da lui toto caelo: Platone è «l’uomo che i malvagi non hanno neanche il diritto di lodare».

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RECENSIONE DI EUGENIO SCALFARI
L’Espresso - giovedì 23 luglio 2009

lite e democrazia
Ho letto con attenzione e interesse il libro di Massimo Salvadori ("Democrazie senza democrazia" editore Laterza) e, con pari attenzione e interesse, la recensione che gli ha dedicato Luciano Canfora sul "Corriere della Sera" del 29 giugno scorso.

Il tema è di stringente attualità politica e i due autori, del libro e della recensione, procedono direi mano nella mano nella critica anti-elitista che ha come bersagli sia la democrazia liberale ottocentesca sia quella di massa instaurata nel secondo Novecento per iniziativa della socialdemocrazia e del movimento socialista in Europa.

Si tratta da parte dei due autori di una critica senza appello che mette sotto schiaffo la democrazia parlamentare e partitocratica, appoggiandosi alle motivazioni formulate da Gaetano Mosca, Robert Michels, Gramsci (ai quali aggiungerei Pareto e Salvemini e, perché no, in epoche diverse anche Tocqueville, Benjamin Constant, Georges Sorel e Schumpeter) convergenti nel dimostrare la falsità dell’auto-rappresentazione d’una democrazia formalmente esistente, ma in realtà totalmente asservita ai poteri economici e/o all’interesse dell’oligarchia dominante di mantenere il potere, estenderlo, bloccare le possibilità di controllo e di rinnovamento delle classi dirigenti.

Marx ed Engels sono assai meno presenti in questa analisi critica. Essi infatti davano una lettura sovrastrutturale della politica e fissavano il loro sguardo soprattutto sull’evoluzione delle forze economiche che rappresentavano la struttura della società. Nacque da questa loro lettura la distinzione tra le cosiddette libertà borghesi e la libertà sostanziale che si sarebbe attuata soltanto con l’abolizione della proprietà privata prima e dello Stato poi.

Ho detto che l’analisi marxista ha lavorato su un altro piano, ma è pur vero che la critica delle libertà borghesi ha finito con l’incontrarsi con quella anti-elitaria realizzando uno dei molti casi del "marciare separati per colpire uniti".

Non mi nascondo affatto i problemi edilizi che la democrazia parlamentare porta con sé sin dalla sua nascita, sia nella fase liberale che operava su un ceto molto ristretto in base al genere (soltanto maschile) e al censo (soltanto gli abbienti) e sia nella fase del suffragio universale, dei partiti di massa e delle organizzazioni sindacali.

La dinamica tra il potere politico e il potere economico e il frequente asservimento del primo rispetto al secondo è stata una costante della storia, non soltanto moderna, ma anche antica. Quindi non soltanto della democrazia. Non ho bisogno di ricordare a Salvadori (e tantomeno a Canfora) il peso che esercitarono i ricchi nella Roma senatoriale e perfino in quella pre-imperiale del primo e del secondo triumvirato.

Il dominio del "business" sulla politica è, lo ripeto, una costante storica che si impose sia quando la politica era debole sia quando era forte; perfino Napoleone (e non parliamo del secondo impero di suo nipote) soggiacque in molte occasioni al potere economico, così come vi soggiacquero molti presidenti degli Stati Uniti e molti premier britannici. Tutti i paesi in tutte le latitudini hanno vissuto le fasi alterne di questa dinamica che è ineliminabile nella storia del mondo.

Mi preme però di discutere il tema delle "élite" e delle oligarchie. Rimarco intanto una sostanziale differenza tra questi due temi che sintetizzo così: le oligarchie sono delle "élite" che hanno bloccato l’accesso al potere di nuove forze sociali. Ma non tutte le "élite" si rattrappiscono in oligarchie, così come non tutte soggiacciono al potere dei "business". Roosevelt fu un caso importante di questa dinamica. Barack Obama ne è un altro, operante sotto i nostri occhi.

Personalmente ritengo che il potere politico sia sempre stato concentrato nelle "élite". La critica anti-elitaria ha quasi sempre avuto come sbocco politico l’insediamento di regimi autoritari o dittatoriali o addirittura totalitari. Da questo punto di vista la Rivoluzione francese rappresenta un esempio mirabile per la rapidità con la quale è passata da uno stadio all’altro: dalla democrazia costituzionale dell’89 all’oligarchia dell’asse Danton-Robespierre, alla dittatura del Terrore, all’oligarchia del Direttorio, al potere assoluto dell’Impero.

Le élite non bloccate, quelle che un radicale come de Viti de Marco chiamava "la circolazione delle élite" e insieme la divisione dei poteri teorizzata da Montesquieu, cioè lo Stato di diritto che assicura il controllo attraverso appunto la divisione dei poteri: questo è lo schema di una democrazia funzionante, tuttora valido anche se permanentemente insidiato. A mantenerlo sono utilissime le analisi critiche del tipo di quella dell’amico Salvadori che tengono vivo il dibattito e segnalano le crepe e le falle di un sistema fragile che sopravvive perché «non se ne è ancora inventato un altro migliore».

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