Paolo Di Stefano, Corriere della Sera, 22/09/09, 22 settembre 2009
Lo studente morto per caso che nessuno ricorda più - 

Una pallottola 7.62, sparata da una mitraglietta di fabbricazione sovietica
Lo studente morto per caso che nessuno ricorda più - 

Una pallottola 7.62, sparata da una mitraglietta di fabbricazione sovietica. Venerdì 9 marzo 1979, una giornata senza sole, attorno alle 13.40, una pallottola, una sola, trapassò il braccio destro e il torace di Emanuele Iurilli, perforandogli il polmone e sfiorandogli il cuore. Torino, via Millio, periferia operaia di Borgo San Paolo, un rettangolo stipato di palazzi con 40 mila abitanti. Emanuele avrebbe compiuto 19 anni in maggio, quel giorno stava rientrando per pranzo dal Settimo Istituto Tecnico Aeronautico dove studiava e a una decina di metri dal portone di casa finì casualmente in un’imboscata tesa ai poliziotti da Prima Linea. Pochi ricordano ancora questa vittima innocente del terrorismo, la madre di Emanuele è morta un paio d’anni fa e suo padre poco dopo. La memoria rimane appesa alle parole del suo miglior amico, il cugino Michelangelo, con cui Emanuele passava i pomeriggi a costruire modellini di auto e di aerei: «La nostra passione» (la camera di Emanuele era zeppa di piccoli Jumbo, F 104, G 91). Perché spesso i caduti per caso, conclusi i funerali di Stato, rimangono in una foto tessera con didascalia e senza storia. Si dimentica, eccome.

 La fine di Emanuele cominciò una settimana prima, ma nessuno poteva immaginarlo, perché Emanuele era uno studente come tanti («migliore degli altri», dice oggi suo cugino), figlio di Alfredo, un operaio della Fiat emigrato al Nord come carrozziere nel dopoguerra da Spinazzola, Bari, e di Elvira Almasso, insegnante elementare, piemontese delle Langhe, dove da bambina aveva visto da vicino la Resistenza. Forse per questo aveva consigliato a suo figlio di leggere Fenoglio e Il partigiano Johnny è rimasto il libro preferito di Emanuele, il romanzo su cui avrebbe voluto fare una relazione (oggi si dice tesina) per la maturità. In quei giorni di fuoco, Prima Linea deve (deve?) vendicare due «compagni» uccisi dalla polizia in via Veronese, altra periferia, non troppo lontana. Il commando decide che l’agguato avverrà in una bottiglieria, di fianco al palazzo in cui vivono famiglie modeste, come in tutto il quartiere, famiglie che non c’entrano niente e pensano solo a lavorare in fabbrica e a tirar su i figli.

 I terroristi sono sette, arrivano su una 131 verde, su una 124 familiare e forse su una Volkswagen. Alcuni di loro entrano nel bar (si troveranno poi un paio di vassoi di pasticcini abbandonati sul cofano di una vettura, per strada) e minacciano un paio di ostaggi, altri rimangono in auto. All’arrivo dei poliziotti, chiamati al telefono per un falso ritrovamento di macchine rubate, si apre il fuoco, saltano vetrine e rimbalzano colpi sulla strada. L’appuntato Gaetano D’Angiullo viene ferito alle gambe. proprio in quel momento che Emanuele gira l’angolo, avanza da dietro una Fulvia in sosta per raggiungere casa sua, come ogni giorno, stringendo in una mano la sua cartella di plastica nera piena di quaderni e libri (tra cui Il partigiano Johnny). Deve aver sentito la voce di qualcuno che gli urla di gettarsi per terra, deve aver tentato di fare un balzo in avanti per rifugiarsi tra due auto, ma nel volo viene colpito da una sola pallottola e precipita sulla strada. Mamma Elvira si affaccia al balcone per capire che cos’è quel frastuono, giusto in tempo per vedere suo figlio accasciato: «Quante volte – ricorda ora Michelangelo – mia zia ha raccontato quegli attimi: non sapeva dire se aveva fatto le scale o aveva preso l’ascensore, ma in un attimo raggiunse Emanuele, salì con lui sull’ambulanza e lo accompagnò senza speranze alle Molinette». Quattro anni dopo, il 28 settembre ”83, durante la ricostruzione di quell’omicidio nell’aula speciale delle Vallette, la madre di Emanuele aveva già i capelli bianchi e singhiozzava nel rievocare la sua tragedia, mentre i terroristi dietro le sbarre leggevano i giornali spalle alla corte e chiacchieravano con i parenti. Solo Marco Donat Cattin – raccontano le cronache giudiziarie – si alzò di scatto coprendosi il volto con una mano, forse per un tardivo moto di compassione. «Emanuele – dice il suo cugino preferito – avrebbe voluto diventare ingegnere aeronautico, sognava di volare».