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 2009  settembre 22 Martedì calendario

Eroi con un’unica ragion d’essere: vincere - 
Per quanto celebre, ricco e famo­so possa essere oggi un atleta, la distanza tra lui e un suo col­lega dell’antica Grecia è incom­mensurabile

Eroi con un’unica ragion d’essere: vincere - 
Per quanto celebre, ricco e famo­so possa essere oggi un atleta, la distanza tra lui e un suo col­lega dell’antica Grecia è incom­mensurabile. Per capirne le ragioni, bi­sogna pensare a quel che significava, allora, la gara e la vittoria.

 Fin dall’inizio della loro storia, i va­lori dei greci furono di carattere com­petitivo. L’educazione dei giovani era ispirata all’insegnamento che, già nel­­l’Iliade, il centauro Chirone aveva im­partito ad Achille: «Essere sempre il primo e il migliore». Solo chi riusciva a essere tale meritava la gloria che spet­tava all’eroe. Lo stesso valeva per l’atle­ta: se vinceva, in suo onore si erigeva­no statue e si scrivevano odi; in caso contrario, dava prova della sua inade­guatezza, con conseguente perdita del­l’autostima e della stima altrui. Per questo, come dice un celebre verso di Pindaro, l’atleta sconfitto se ne torna­va a casa «per obliqui sentieri nasco­sti». Sarebbe rimasto semplicemente allibito, un atleta greco, se avesse senti­to De Coubertin dichiarare che «l’im­portante è partecipare». L’importante per lui era invece riportare quante più vittorie era possibile nel corso delle tante gare (agones) che a intervalli re­golari venivano indette presso i grandi santuari, e organizzate secondo un ca­lendario che, evitando sovrapposizio­ni, consentiva di cercare la gloria com­piendo il cosiddetto periodos (circui­to).

 Ma con il tempo, la pratica di gareg­giare (che risaliva a un’epoca di molto antecedente al 776, data della prima Olimpiade) subì inevitabilmente dei cambiamenti. A un premio in un pri­mo momento solo simbolico (a Olim­pia, una corona di ulivo), se ne sostituì uno in danaro, secondo Plutarco offer­to per la prima volta da Solone. A que­sto si aggiunsero vantaggi come i pasti forniti a vita dalla città e l’esenzione dalle imposte. A quel punto non erano più solo gli aristocratici a voler parteci­pare alle gare. E poiché la vittoria dava gloria anche alla polis del vincitore, le città presero a pagare gli atleti perché anche chi non ne aveva i mezzi potes­se farlo. Del che, alcuni presero ad ap­profittare: nel V secolo, Astilo di Croto­ne partecipò, riportando la vittoria, a tre Olimpiadi consecutive: ma solo al­la prima gareggiò per la sua città; alle altre due lo fece per Siracusa. Per lava­re l’oltraggio, i suoi concittadini tra­sformarono la sua casa in prigione.

 Nel frattempo, si erano moltiplicate le discipline. A Olimpia, ad esempio, si svolgevano corse a piedi, a cavallo e sui carri; incontri di lotta di tre tipi di­versi (la lotta propriamente detta, il pu­gilato e il pancrazio, un misto tra le due discipline); il pentathlon, che com­binava cinque prove: il salto, la lotta, il lancio del disco, quello del giavellotto e la corsa a piedi. L’atletica ormai ri­chiedeva un training specializzato: era nato il professionismo. L’organizzazio­ne delle gare era minuziosa, le regole di comportamento precise: durante la lotta, ad esempio, era vietato afferrare i genitali dell’avversario, morderlo e mettergli le dita negli occhi. Ma si rac­contava che un celebre lottatore di ori­gine siciliana, Leontisco di Messina, avesse ottenuto due vittorie spezzan­do le dita all’avversario. Si sapeva di boxeur che avvolgevano le mani in fa­sce di cuoio di bue per rendere i loro colpi più micidiali. E non mancavano i casi di corruzione: il pugile Eupolo di Tessaglia, nel 388 a.C., comprò tre av­versari e lo stesso fece l’ateniese Callip­po alla 112a Olimpiade. Secondo Filo­strato, l’agonismo era degenerato al punto che vi era chi pagava per ottene­re una vittoria che la vita debosciata non gli avrebbe consentito. possibi­le, però, che esagerasse: Plutarco (che scrive dopo novecento anni di storia olimpica) cita meno di una dozzina di casi di corruzione.

 Pochi o tanti che questi casi fossero, comunque, l’agonismo eroico se n’era andato. Ma una cosa era rimasta: per ragioni molto diverse da quelle anti­che, bisognava vincere. Con qualun­que mezzo e a qualunque prezzo. Co­me dimostra un celebre truculentissi­mo aneddoto: durante una gara di pan­crazio, un tal Arrichion aveva afferrato un piede dell’avversario che lo stava strangolando, dislocandogli l’articola­zione. In preda a un atroce dolore, que­sti aveva alzato l’indice in segno di sconfitta. Ma Arrichion era già morto. Che importava? Aveva vin­to comunque.