BRUNO VENTAVOLI, la Stampa 22/09/09, 22 settembre 2009
GIOCO DUNQUE ESISTO
Quando Goethe scese in Italia per il suo tour alla ricerca dei limoni in fiore e di vestigia antiche si fermò a Verona per osservare incuriosito un fragoroso pandemonio. Accanto all’Arena si trovò al cospetto di 5mila persone urlanti (solo uomini). Tifavano entusiasti per due squadre di aristocratici locali che competevano al «Pallone con bracciale», antenato d’una miriade di giochi con palle da prendere a pugni. Qualche secolo dopo, quella partita si ripeterà, nella stessa città, per «Tocatì («tocca a te», in dialetto veronese), il Festival internazionale dei giochi in strada. Da sette anni, l’evento rinnova spassi antichi che si praticavano per vicoli, boschi e campi, prima che l’energia ludica contemporanea fosse assorbita dall’elettronica nelle buie stanze domestiche. Qui c’è aria vera, corpi che si muovono, sudore che gronda. Lestezza di mano e d’intelletto. Nulla di passatistico né di antiquario, insomma, perché nelle piazze veronesi ci si cimenta sul serio. Il gioco rivive solo se si gioca.
Dalla loro parte si schiera anche l’Unesco, che nel 2003 ha riconosciuto il gioco come patrimonio immateriale dell’umanità, al pari della danza o della poesia, perché in quel divertirsi secondo regole, c’è la storia, l’organizzazione sociale, il rapporto con un capitale simbolico. E - fondamentale - pure con l’ambiente, perché per trastullarsi con lippe o ferri, occorre avere strade a misura d’uomo, boschi puliti, spianate di terra.
Il ventaglio delle proposte è variegato. Dai giochi con tavoliere più o meno noti a tutti, come dama, scacchi, backgammon, al modernissimo acrobatico parkour nato nelle metropoli francesi. Ma la maggior parte dei cimenti proposti dice qualcosa solo al brano d’Italia che ancora li pratica, come il «Birillo parato» (un birillo con monete in capo da buttar giù con un altro birillo) conosciuto da un manipolo di appena trenta appassionati del messinese, alla Borella (altro gioco, con birilli giganteschi da un metro e mezzo, che si abbattono con una boccia pesante anche un chilo) che germina invece nel trevisano. E poi «To’ vegna» (antico gioco sferistico), Corsa con la cannata (anfore piene d’acqua), Scalillo (corsa a squadre tenendo una scala in verticale).
Quelli di Tocatì, che stanno compilando un atlante ludico nazionale raccogliendo tutto quanto il gioco ha prodotto nella penisola, ogni anno invitano un paese ospite. Questa è la volta della Grecia, con alcune forme di gioco-sport che rivanno ai primordi dell’umanità mediterranea. Platone diceva che «Scopri di più su una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazione». E i patiti di tavli (il backgammon greco) paiono prenderlo alla lettera. Chi ha viaggiato in quelle terre non può non aver notato ovunque, nei bar, sulle spiagge, nelle piazze, giocatori immersi in dialoghi platonici a suon di dadi e pedine mosse sulla tavola di legno, con annesse imprecazioni e maledizioni - codeste scarsamente filosofiche - perché nel gioco, come nella vita, c’è sempre la malasorte a mettere lo zampino. Più muscolari, plastiche, primordiali, sono le due forme di lotta che emergono direttamente dai vasi attici. La «Paradosiake pale» e la «Kispetia», dove i contendenti si cospargono il corpo d’olio d’oliva, per sfuggire meglio alla presa dell’avversario, ma anche per rendere omaggio a quel condimento, simbolo di pianure e colli ellenici.
Del «Lithari» narrò anche Omero: l’obiettivo è abbattere birilli sistemati in un campo rettangolare. Ma la peculiarità è che le squadre sono riunite per sesso. Uomini contro donne. Chi perde deve portare in braccio, a mo’ di trionfo, il vincitore, con onere assolutamente paritario. Oggi, come duemila anni fa. Quando le guerre si fermavano per gareggiare a Olimpia, e quando si pensava di far cosa grata agli dei, inscenando competizioni che davano sapor di dionisiaco al banale mestiere di vivere.