Francesco Battistini, Corriere della Sera, 22/09/09, 22 settembre 2009
Israele e la mappa delle colonie - 
L’ultima (e unica) volta in cui Netanyahu andò da Obama a parlare di colonie da congelare, maggio scorso, lo stesso giorno sui giornali israeliani uscì il progetto d’una nuova colonia da costruire a Maskiot, nella Valle del Giordano
Israele e la mappa delle colonie - 
L’ultima (e unica) volta in cui Netanyahu andò da Obama a parlare di colonie da congelare, maggio scorso, lo stesso giorno sui giornali israeliani uscì il progetto d’una nuova colonia da costruire a Maskiot, nella Valle del Giordano. Stavolta sarà diverso. Ma non troppo: Bibi, Barack e Abu Mazen si vedono all’Onu, tutti insieme per la prima volta, argomento gli insediamenti, e nessuno si aspetta granché. «L’unico a volere questo incontro è Obama – riassume Nahum Barnea, editorialista israeliano ”. Gli altri due sono lì solo perché l’assente ha sempre torto». Netanyahu, ostaggio dell’estrema destra nel suo governo; il presidente palestinese, ricattato dall’ascesa dei fondamentalisti di Hamas. Eppure, è di qui che deve passare la soluzione dei Due Stati che tutti (più o meno) dicono di volere. E al momento è su questo problema che il presidente americano si gioca la partita arabo-israeliana. Ecco un piccolo atlante per orientarsi nella disputa. 

 Che cosa sono 

 Le colonie israeliane di cui si discute sono nate negli ultimi quarant’anni al di là della Linea Verde, ovvero del confine che prima della Guerra dei Sei Giorni (1967) divideva Israele dall’area giordana. Oggi si trovano sulle Alture del Golan, sotto amministrazione civile israeliana, ma soprattutto nell’area di Gerusalemme Est e in Cisgiordania (la West Bank, che Israele preferisce chiamare Giudea e Samaria). Sono 121 quelle nate su spinta e finanziamento dei vari governi israeliani: vere città come Maale Adumim (sorto nel 1975 alle porte di Gerusalemme, più di 30mila abitanti) o Ariel (1978, 16mila abitanti), simboli come Gush Etzion (fondato nel 1967), cantieri sempre aperti come Gilo. Più di 50 sono invece le colonie totalmente illegali, alcune microscopiche, nate senza il permesso formale del governo israeliano. 

Chi ci abita 

 Le colonie occupano il 3 per cento della Cisgiordania, ma di fatto il loro controllo si estende al 40 per cento delle municipalità. Dal 1996, nessun governo israeliano ha ufficialmente autorizzato la costruzione di nuovi insediamenti, ma gli interventi per bloccarli sono stati praticamente zero. Uno degli ostacoli principali al congelamento, su cui adesso insiste Netanyahu, è la loro «crescita naturale »: il 5,5% l’anno, contro una media nazionale dell’1,8. Oltre ai 180mila che vivono nei quartieri ebraici di Gerusalemme Est, i coloni sono quasi 270mila. La popolazione (130mila nel 1995) è raddoppiata in poco più di dieci anni e l’età media è molto bassa: solo il 2,9% dei coloni ha più di 65 anni, contro una media nazionale del 10%. Secondo il governo israeliano, questo aumento impetuoso non può essere limitato. L’Anp sostiene invece che sono le politiche di incentivi e di esenzioni fiscali, fortemente volute in passato proprio dal Likud, il partito del premier, a favorire questa crescita naturale. 

 I palestinesi: sgomberare 

A dirlo, sono innanzi tutto gli organismi internazionali. Dall’Onu alla Corte internazionale dell’Aja, dall’Unione Europea alla Croce rossa, decine di documenti dichiarano questi insediamenti una violazione degli accordi sanciti dalla Convenzione di Ginevra, a Oslo nel 1993, dalla Road Map e dalla conferenza di Annapolis del 2007. Molti Paesi, come la Gran Bretagna, boicottano i prodotti agricoli degli insediamenti. Anche la Corte Suprema di Israele ha stabilito (2005) che questi territori non fanno parte dello Stato di Israele, poiché solo Gerusalemme Est è stata annessa nel 1980. Peraltro, proprio a Gerusalemme Est, dopo Annapolis sono aumentate le costruzioni nei quartieri orientali ebraici (750 nuovi progetti) e le demolizioni delle case palestinesi «abusive»: fra il 2004 e il 2008, ne erano state buttate giù 88, mentre solo nei primi sei mesi del 2009 ne sono state distrutte 40. 

 I coloni: vogliamo restare 

 Secondo un censimento del 2007, solo il 31,09% dei coloni è disponibile a una trattativa (ma non al ritiro), mentre gli altri si dividono fra ultraortodossi che tengono duro «per motivi religiosi» (il 29,08%) e chi aderisce alle tesi della destra Likud (38,96%) o della destra estrema (0,87%). La tesi prevalente: molti terreni sono stati comprati con regolari contratti. E poi Israele ha già ritirato i coloni dal Sinai, nel 1982, e da Gaza nell’agosto 2005. «Altre concessioni sono pericolose e l’avvento di Hamas nella Striscia ne è la dimostrazione. Inoltre, sono stati i palestinesi a rifiutare le offerte di restituzione fatte dai governi Barak e Olmert» (oltre il 95% della Cisgiordania). Negli ultimi mesi sono aumentate le violenze dei coloni, specie nell’area di Hebron. Una donna, Daniela Weiss, guida gli attacchi mirati dell’ala estrema contro i palestinesi o i pacifisti della sinistra israeliana: a ogni tentativo di sgombero, si risponde con aggressioni organizzate. 

 Cosa vuole Netanyahu 

 Dopo mesi d’attesa, il premier israeliano non dice no alla richiesta Usa di una moratoria (parola preferita a congelamento) degli insediamenti a partire da ottobre. Obama vorrebbe lo stop di un anno, Netanyahu è disponibile a sei-nove mesi, ma con varie condizioni: 1) escludere da ogni trattativa Gerusalemme Est, proclamata capitale di Israele ma non riconosciuta come tale dalla comunità internazionale; 2) terminare le 2.400 case già in costruzione in sette aree, da Gush Etzion a Maale Adumim, fino a Maskiot (valle del Giordano); 3) il riconoscimento da parte dell’Anp delle radici ebraiche dello Stato di Israele. A New York, Bibi va con un dato in tasca: nei primi otto mesi del 2009, i progetti edilizi nelle colonie sono comunque già calati del 34% rispetto all’anno prima. La betoniera non si è fermata. Però, inevitabile, sta rallentando. 

Cosa vuole Abu Mazen 

 Per il presidente palestinese, la «moratoria» non somiglia neanche da lontano a un reale stop. L’Anp chiede l’applicazione delle risoluzioni e degli accordi internazionali, col ritiro integrale dei coloni (sia pur diluito nel tempo): al momento, gli insediamenti spaccano in quattro la Cisgiordania e isolano Gerusalemme Est («Che non va esclusa dalla trattativa»), impedendo «la contiguità territoriale del futuro Stato palestinese» tra Nablus, Ramallah, Gerico, Hebron e Betlemme. Inoltre, l’Anp teme che una dichiarazione di «ebraicità» dello Stato di Israele suoni come una rinuncia all’identità della parte occupata, danneggiando proprio gli arabi israeliani (il 20 per cento della popolazione), oltre a essere la pietra tombale sul diritto al ritorno dei profughi del 1948: quattro milioni di palestinesi, dal Libano e dalla Giordania. 

Cosa vuole Obama 

La questione degli insediamenti è la pre-condizione della «pace in due anni» che il presidente Usa sogna. Oltre a eventuali sanzioni più dure all’Iran, chieste da Netanyahu, in cambio di un congelamento di almeno un anno ci sarebbe la disponibilità di alcuni Paesi arabi più moderati, come il Qatar e l’Oman, a scambiare ambasciatori con Israele e a concedere l’uso dello spazio aereo alla compagnia di bandiera israeliana, El Al. Obama ci crede, ha impegnato il meglio dei suoi collaboratori, da Dennis Ross a Rahm Emanuel. E all’inviato in Medio Oriente, George Mitchell, dicono abbia dato di persona il consiglio: «Prendi casa a Gerusalemme. E sulle colonie, non mollare l’osso».