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 2009  settembre 22 Martedì calendario

Israele e la mappa delle colonie - 
L’ultima (e unica) volta in cui Netanyahu an­dò da Obama a parlare di colonie da congelare, maggio scorso, lo stesso giorno sui giornali israelia­ni uscì il progetto d’una nuova co­lonia da costruire a Maskiot, nella Valle del Giordano

Israele e la mappa delle colonie - 
L’ultima (e unica) volta in cui Netanyahu an­dò da Obama a parlare di colonie da congelare, maggio scorso, lo stesso giorno sui giornali israelia­ni uscì il progetto d’una nuova co­lonia da costruire a Maskiot, nella Valle del Giordano. Stavolta sarà diverso. Ma non troppo: Bibi, Ba­rack e Abu Mazen si vedono al­l’Onu, tutti insieme per la prima volta, argomento gli insediamen­ti, e nessuno si aspetta granché. «L’unico a volere questo incontro è Obama – riassume Nahum Bar­nea, editorialista israeliano ”. Gli altri due sono lì solo perché l’as­sente ha sempre torto». Netan­yahu, ostaggio dell’estrema destra nel suo governo; il presidente pa­lestinese, ricattato dall’ascesa dei fondamentalisti di Hamas. Eppu­re, è di qui che deve passare la so­luzione dei Due Stati che tutti (più o meno) dicono di volere. E al mo­mento è su questo problema che il presidente americano si gioca la partita arabo-israeliana. Ecco un piccolo atlante per orientarsi nella disputa. 

 Che cosa sono 

 Le colonie israeliane di cui si di­scute sono nate negli ultimi qua­rant’anni al di là della Linea Ver­de, ovvero del confine che prima della Guerra dei Sei Giorni (1967) divideva Israele dall’area giorda­na. Oggi si trovano sulle Alture del Golan, sotto amministrazione civile israeliana, ma soprattutto nell’area di Gerusalemme Est e in Cisgiordania (la West Bank, che Israele preferisce chiamare Giu­dea e Samaria). Sono 121 quelle nate su spinta e finanziamento dei vari governi israeliani: vere città come Maale Adumim (sorto nel 1975 alle porte di Gerusalemme, più di 30mila abitanti) o Ariel (1978, 16mila abitanti), simboli come Gush Etzion (fondato nel 1967), cantieri sempre aperti co­me Gilo. Più di 50 sono invece le colonie totalmente illegali, alcune microscopiche, nate senza il per­messo formale del governo israe­liano. 

Chi ci abita 

 Le colonie occupano il 3 per cen­to della Cisgiordania, ma di fatto il loro controllo si estende al 40 per cento delle municipalità. Dal 1996, nessun governo israeliano ha ufficialmente autorizzato la co­struzione di nuovi insediamenti, ma gli interventi per bloccarli so­no stati praticamente zero. Uno de­gli ostacoli principali al congela­mento, su cui adesso insiste Ne­tanyahu, è la loro «crescita natura­le »: il 5,5% l’anno, contro una me­dia nazionale dell’1,8. Oltre ai 180mila che vivono nei quartieri ebraici di Gerusalemme Est, i colo­ni sono quasi 270mila. La popola­zione (130mila nel 1995) è raddop­piata in poco più di dieci anni e l’età media è molto bassa: solo il 2,9% dei coloni ha più di 65 anni, contro una media nazionale del 10%. Secondo il governo israelia­no, questo aumento impetuoso non può essere limitato. L’Anp so­stiene invece che sono le politiche di incentivi e di esenzioni fiscali, fortemente volute in passato pro­prio dal Likud, il partito del pre­mier, a favorire questa crescita na­turale. 

 I palestinesi: sgomberare 

A dirlo, sono innanzi tutto gli organismi internazionali. Dal­l’Onu alla Corte internazionale del­­l’Aja, dall’Unione Europea alla Cro­ce rossa, decine di documenti di­chiarano questi insediamenti una violazione degli accordi sanciti dalla Convenzione di Ginevra, a Oslo nel 1993, dalla Road Map e dalla conferenza di Annapolis del 2007. Molti Paesi, come la Gran Bretagna, boicottano i prodotti agricoli degli insediamenti. Anche la Corte Suprema di Israele ha sta­bilito (2005) che questi territori non fanno parte dello Stato di Isra­ele, poiché solo Gerusalemme Est è stata annessa nel 1980. Peraltro, proprio a Gerusalemme Est, dopo Annapolis sono aumentate le co­struzioni nei quartieri orientali ebraici (750 nuovi progetti) e le demolizioni delle case palestinesi «abusive»: fra il 2004 e il 2008, ne erano state buttate giù 88, mentre solo nei primi sei mesi del 2009 ne sono state distrutte 40. 

 I coloni: vogliamo restare 

 Secondo un censimento del 2007, solo il 31,09% dei coloni è di­sponibile a una trattativa (ma non al ritiro), mentre gli altri si divido­no fra ultraortodossi che tengono duro «per motivi religiosi» (il 29,08%) e chi aderisce alle tesi del­la destra Likud (38,96%) o della de­stra estrema (0,87%). La tesi preva­lente: molti terreni sono stati com­prati con regolari contratti. E poi Israele ha già ritirato i coloni dal Sinai, nel 1982, e da Gaza nell’ago­sto 2005. «Altre concessioni sono pericolose e l’avvento di Hamas nella Striscia ne è la dimostrazio­ne. Inoltre, sono stati i palestinesi a rifiutare le offerte di restituzione fatte dai governi Barak e Olmert» (oltre il 95% della Cisgiordania). Negli ultimi mesi sono aumentate le violenze dei coloni, specie nel­l’area di Hebron. Una donna, Da­niela Weiss, guida gli attacchi mi­rati dell’ala estrema contro i pale­stinesi o i pacifisti della sinistra israeliana: a ogni tentativo di sgombero, si risponde con aggres­sioni organizzate. 

 Cosa vuole Netanyahu 

 Dopo mesi d’attesa, il premier israeliano non dice no alla richie­sta Usa di una moratoria (parola preferita a congelamento) degli in­sediamenti a partire da ottobre. Obama vorrebbe lo stop di un an­no, Netanyahu è disponibile a sei-nove mesi, ma con varie condi­zioni: 1) escludere da ogni trattati­va Gerusalemme Est, proclamata capitale di Israele ma non ricono­sciuta come tale dalla comunità in­ternazionale; 2) terminare le 2.400 case già in costruzione in sette aree, da Gush Etzion a Maale Adu­mim, fino a Maskiot (valle del Giordano); 3) il riconoscimento da parte dell’Anp delle radici ebrai­che dello Stato di Israele. A New York, Bibi va con un dato in tasca: nei primi otto mesi del 2009, i pro­getti edilizi nelle colonie sono co­munque già calati del 34% rispet­to all’anno prima. La betoniera non si è fermata. Però, inevitabile, sta rallentando. 

Cosa vuole Abu Mazen 

 Per il presidente palestinese, la «moratoria» non somiglia nean­che da lontano a un reale stop. L’Anp chiede l’applicazione delle risoluzioni e degli accordi interna­zionali, col ritiro integrale dei colo­ni (sia pur diluito nel tempo): al momento, gli insediamenti spac­cano in quattro la Cisgiordania e isolano Gerusalemme Est («Che non va esclusa dalla trattativa»), impedendo «la contiguità territo­riale del futuro Stato palestinese» tra Nablus, Ramallah, Gerico, He­bron e Betlemme. Inoltre, l’Anp te­me che una dichiarazione di «ebraicità» dello Stato di Israele suoni come una rinuncia all’identi­tà della parte occupata, danneg­giando proprio gli arabi israeliani (il 20 per cento della popolazio­ne), oltre a essere la pietra tomba­le sul diritto al ritorno dei profu­ghi del 1948: quattro milioni di pa­lestinesi, dal Libano e dalla Giorda­nia. 

Cosa vuole Obama 

La questione degli insediamenti è la pre-condizione della «pace in due anni» che il presidente Usa so­gna. Oltre a eventuali sanzioni più dure all’Iran, chieste da Netan­yahu, in cambio di un congela­mento di almeno un anno ci sareb­be la disponibilità di alcuni Paesi arabi più moderati, come il Qatar e l’Oman, a scambiare ambasciato­ri con Israele e a concedere l’uso dello spazio aereo alla compagnia di bandiera israeliana, El Al. Oba­ma ci crede, ha impegnato il me­glio dei suoi collaboratori, da Den­nis Ross a Rahm Emanuel. E all’in­viato in Medio Oriente, George Mi­tchell, dicono abbia dato di perso­na il consiglio: «Prendi casa a Ge­rusalemme. E sulle colonie, non mollare l’osso».