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 2009  settembre 22 Martedì calendario

L’Islam e Sanaa, parlano 4 padri «Mai con un italiano». «No, libere» - Quattro padri, intorno ad un tavolo

L’Islam e Sanaa, parlano 4 padri «Mai con un italiano». «No, libere» - Quattro padri, intorno ad un tavolo. Ahmed, Ma­gdy, Bandaogo, Mamadou. In Italia hanno trovato lavoro, una famiglia. Oggi sono in una sala del centro in­terculturale Mondinsieme, una bella realtà che raccoglie più di 60 associa­zioni di immigrati. A parlare di figli, dei loro figli. Nati e cresciuti qui, nel­l’abbondanza di Reggio Emilia, la più piccola tra le prime dieci città del no­stro Paese per densità di cittadini stranieri. Vederli crescere in un mon­do «straniero» che li attira ma può anche respingere, sentirli sempre più diversi da se stessi fin quasi a non riconoscerli più: nelle loro paro­le c’è questo e altro ancora. Sulla tra­gedia di Sanaa, la vera ragione di que­sto piccolo Forum, dopo la scontata e condivisa condanna dell’omicidio emerge l’esistenza di un problema vero, declinato in modi diversi. Abbia­mo scelto di farli parlare, senza chiose. Per guarda­re alla tragedia di Porde­none e alle questioni che essa pone da un altro, fondamentale punto di vista. Ecco cosa ci hanno detto. «Peccato mortale» Ahmed Tahqwi, 56 an­ni. Nato a Casablanca, Marocco. arrivato in Ita­lia nel 1987. Fino a poco tempo fa ha gestito una rosticceria. Adesso è disoccupato. La moglie, Mi­na, lavora in una cooperativa di puli­zie. Due figli, Wallid e Hajar, maschio e femmina, di 15 e 9 anni. «Se mia figlia esce, conosce un ragazzo italia­no e si innamora, la colpa è mia. An­che perché so bene che alla fine, sarà lei a stare male. Tra noi e voi la tradi­zione, i comportamenti, sono diver­si. Per gli italiani è difficile rispettare la nostra cultura. Lo dimostra anche la storia di Sanaa. Il fidanzato avreb­be dovuto chiedere il permesso al pa­dre, alla famiglia. Non lo ha fatto. Ha portato quella ragazza a convivere senza essere sposata, che è peccato mortale». «Io non accetterei mai un legame del genere. Potrei farlo solo se il fi­danzato di mia figlia diventasse mu­sulmano, facendo sue le nostre tradi­zioni. Siamo diversi, inutile fingere che non sia così. A voi non piace il nostro modo di mangiare, con le ma­ni. E io non vorrei mai una moglie che non indossa la jallaba e non sia in grado di cucinarmi il tajin . Ci so­no cose che non mi piacciono della vostra società, anche se ci devo vive­re. Vedo i vostri ragazzi con la sigaret­ta in mano, che bevono birra per stra­da. Io voglio che mi figlia sia vestita bene, alla nostra maniera. Con il ve­lo, certo. Lo dice il Corano. Non vo­glio che vada in giro mezza nuda co­me le sue coetanee italiane, che è una cosa schifosa. Chi lo dice che dobbiamo per forza adattarci al vo­stro stile di vita? I francesi, quando sono arrivati in Marocco, hanno co­struito chiese, giravano bevendo vi­no. I miei figli devono diventare de­gli ottimi musulmani, capaci di segui­re solo il Corano, senza cedere alle tentazioni che gli stanno intorno. E io farò di tutto per aiutarli». «Il Corano si rispetta» Magdy El Meligy, 53 anni, nato ad Alessandria d’Egitto, artigiano. In Ita­lia dal 1979. Si è sposato con Enrica, italiana, casalinga, rimasta cristiana. Hanno 5 figlie. La più grande, Gio­vanna, ha 21 anni e studia ingegne­ria civile. La più piccola, Ranja, ne ha due. «Il problema va affrontato pri­ma del matrimonio, come ho fatto io. C’è la legge del Corano da rispetta­re: i miei figli devono diventare mu­sulmani. In Europa c’è libertà di scel­ta anche in campo religioso. Per noi non è così, bisogna metterlo in chia­ro. Abbiamo delle regole che non pos­siamo modificare, altrimenti diven­tiamo peccatori». «Quella ragazza, Sanaa, ha infran­to la legge del Corano. La convivenza è peccato. Normale che un padre non accetti una cosa del genere. Questio­ne di rispetto: Sanaa ha avuto un comportamento sbagliato verso il Co­rano e i genitori. Lei non avrebbe mai potuto cambiare religione: sareb­be stato uno disonore per la sua fami­glia, come quel Magdi Allam. Non im­porta se la legge del vostro Paese lo consente. Per noi è peccato. Le mie figlie non mettono il velo, non anco­ra. Ma sanno che mi piacerebbe. A parte la più piccola, fanno già il Ra­madan, dall’età di dieci anni. Non si può avere tutto in una volta. Nell’edu­care ci vuole pazienza». «Sì alle vostre regole» Bandaogo Seni, 48 anni, in Italia dal 1991. Del Burkina Faso. Me­talmeccanico a Scandiano. Sposato, una figlia di 14 anni, Farihda. «Il no­stro Islam è diverso da quello di altri Paesi, forse perché da sempre convi­viamo con cattolici e animisti. Le pre­ghiere sono uguali, i comportamenti no. Io non voglio impedire che mia figlia cresca all’occidentale, altrimen­ti non sarei venuto fin qui. Ho scelto la mia vita, lei farà lo stesso con la sua. Vado spesso in moschea, lei qua­si mai. Non per questo mi reputo un cattivo musulmano. Non voglio co­stringerla. nata qui, deve accettare le regole di questo Paese, sfruttare le occasioni che trova sulla sua strada». «Solo cronaca» Mamadou Diop, 55 anni, è in Italia dal 1989. Senegalese, lavora in una fabbrica di barattoli a Campegine. Sposato, sette figli. «Leopold Sedar Senghor, il primo presidente del Se­negal, sulla divisa portava uno stem­ma con la scritta ’radicamento e aper­tura’: noi siamo cresciuti così. Per i nostri ragazzi è più difficile, soprat­tutto la prima parte». «La tragedia di Sanaa è un sempli­ce fatto di cronaca. Non significa niente. Razzismo e religione non c’entrano, anche se lei teneva com­portamenti inimmaginabili per la cul­tura islamica. Comunque, niente di diverso da quello che accade in tante famiglie italiane, tutto questo scalpo­re è solo una forma di razzismo. Co­me padre, ho paura per le mie figlie. Le vedo crescere in un Paese al quale sperano di appartenere, senza sapere che sarà molto difficile essere accetta­te completamente. Ci sono molte co­se che non mi piacciono dell’Italia. Quando vado davanti alla scuola, ve­do bambini che ’sgridano’ i genitori, urlano contro di loro. Da noi era im­pensabile, mai fatto con mio padre e mio nonno. Ma adesso lo fanno an­che i miei figli, con me, a tavola. L’islamizzazione dei nostri figli di­venta impossibile non appena esco­no di casa. Ma in famiglia, abbiamo il dovere di imporre le nostre regole. Dobbiamo provarci, sempre».