Giovanni Pons, Affari&Finanza, 21/09/2009, 21 settembre 2009
KAISER FRANZ IL DURO SEDOTTO DAL CINEMA
Lanciarsi a settantasette anni in una nuova avventura imprenditoriale non è cosa da tutti. Se poi si tratta di un business difficile e competitivo come la produzione e distribuzione cinematografica le motivazioni devono essere ancora più forti. Ma evidentemente a Franco Tatò, il kaiser Franz della Triumph Adler e della Deutsche Olivetti, piacciono le sfide difficili, ma non impossibili. Così un po’ a sorpresa il suo nome è rispuntato fuori di recente per l’acquisto dalla casa editrice De Agostini della Mikado Film. Una piccola casa di produzione cinematografica fondata nel 1984 da Luigi Musini e Roberto Cicutto ma che ha all’attivo ben 400 film tra cui titoli di rilievo come Lanterne Rosse, Il pranzo di Babette, Buena vista social club, Sostiene Pereira, Lost in translation e Lezioni di piano. Non solo. All’ultimo Festival di Venezia la Mikado si è distinta per aver prodotto l’ultimo film denuncia di Michael Moore, Capitalism: a love story. In De Agostini la Mikado era approdata poco più di due anni fa, offerta dal professor Severino Salvemini al suo amico presidente della holding di Novara Marco Drago. Ma fin da subito si è capito che la gestione dell’oggetto era difficoltosa e così anche l’integrazione a fianco delle altre attività media del gruppo. Gli ultimi numeri, non confermati da Novara ma riportati dai giornali, parlano di un indebitamento di 30 milioni a fronte di un fatturato di 12 e perdite per 4 milioni. Un oggetto sicuramente non facile da raddrizzare anche se Tatò ha basato tutta la sua carriera manageriale sulla capacità di tagliare i costi e riorganizzare le aziende. Chi lo conosce bene riferisce che la spinta verso la nuova iniziativa è arrivata dalla moglie Sonia Raule, bella e giovane protagonista di alcune trasmissioni televisive e grande frequentatrice dei salotti romani. l’unica riuscita a plasmare nel corso degli ultimi dieci anni il carattere duro e teutonico del manager tutto d’un pezzo. Di sicuro Tatò non ha bisogno di consigli per intavolare una trattativa favorevole con Lorenzo Pellicioli, amministratore delegato della De Agostini, tra l’altro i due si conoscono da tempo. Ma qualcuno ricorda che Tatò già in passato è scivolato su una buccia di banana proprio mentre si addentrava nei meandri della televisione. Era amministratore delegato dell’Enel, catapultato in un batter d’occhio dall’impresa privata (Olivetti, Mondadori, Fininvest) a quella pubblica, già lo chiamavano il nuovo Mattei per il piglio con cui si era insediato al vertice dell’azienda elettrica insieme all’ambientalista Chicco Testa, e stava portando avanti con decisione la strategia della multiutility, cioè della grande impresa che opera a 360 gradi nel mondo dei servizi, dalle telecomunicazioni al gas. Con una mossa delle sue, di quelle volte a stupire tutti, Tatò si mise a trattare con Vittorio Cecchi Gori l’acquisto dell’ex Telemontecarlo, la tv che dagli anni ”80 è in predicato di diventare il terzo polo televisivo ma che di fatto ha sempre collezionato perdite a bocca di barile. Durante le trattative arriva la scivolata: Cecchi Gori nomina alla direzione dei programmi tv nientemeno che Sonia Raule, già allora compagna di Tatò, nel cui curriculum non brillavano le esperienze nell’ambito della gestione televisiva. E in un famoso consiglio di amministrazione dell’Enel (all’epoca c’era anche Pellicioli come consigliere indipendente) a Tatò fu fatto presente che se fosse andato avanti con le trattative per Tmc il fuoco di sbarramento interno sarebbe stato insormontabile. L’uomo ci rimase male ma dovette accantonare il progetto e di lì a poco Cecchi Gori sarebbe finito nella pancia della TelecomSeat di Colaninno e Pellicioli con tutti gli strascichi giudiziari che ne seguirono. Oggi evidentemente la situazione è molto diversa: Tatò non ha incarichi pubblici di grande rilievo come era ai tempi dell’Enel, dirige l’Istituto Treccani, ha ancora un incarico nell’Ipi che lascerà a fine anno, e un’antica passione per l’editoria che l’ha portato per ben due volte a essere amministratore delegato della Mondadori. Liberista convinto, studi di filosofia al collegio Ghislieri di Pavia, forte legame con la Germania, viene descritto da coloro con cui ha lavorato un uomo molto concreto, con un carattere a volte rude, con tratti al limite della volgarità. «Sono studi che insegnano ad avere una visione globale spiega Tatò in un’intervista sull’utilità dei suoi studi filosofici . Per un manager è importante la capacità di sviluppare visioni onnicomprensive e di prefigurarsi situazioni complesse da risolvere. Questa capacità io l’ho esercitata con la filosofia».
E di situazioni complesse il manager nato a Lodi nel 1932 ne ha trovate parecchie sul suo cammino. stato uno dei pochi grandi manager a lavorare sia per De Benedetti che per Berlusconi. In Olivetti fin dal 1956, con l’Ingegnere entrò in rotta di collisione all’inizio degli anni ”90 e venne licenziato in tronco. Passato sotto le insegne della Mondadori, dove fece da tutor a Marina Berlusconi, venne chiamato pure in Fininvest per rimettere posto i conti nel momento di maggiore confusione per la holding di famiglia. Raggiunto l’obbiettivo se ne tornò in Mondadori per non scontrarsi con gli uomini di fiducia del Cavaliere, a partire da Fedele Confalonieri. «Non è l’uomo giusto per lo sviluppo», avrebbe detto di lui Marcello Dell’Utri mentre è l’uomo ideale per tagliare i costi e organizzare le complessità». Messa da parte l’impresa privata la sua seconda vita inizia nel luglio 1996 quando viene chiamato dal governo di centrosinistra a gestire l’Enel e il suo collocamento in Borsa che avverrà nel 1999, all’apice della bolla speculativa. Improvvisamente Tatò diventa il maggior esponente di quell’imprenditoria pubblica impegnata a espandere il più possibile le proprie attività con il traguardo della privatizzazione necessaria a rimettere in sesto i conti dello Stato e permettere all’Italia di entrare nell’euro. Tatò in un certo senso si "romanizza" anche se il carattere spigoloso resta. Le sue audizioni in Parlamento creano sempre un mare di polemiche. «A me che ero un incendiario toccava fare il pompiere», ricorda Chicco Testa, presidente Enel in quegli anni vivaci. Insieme a Deutsche Telekom e France Telecom Tatò crea dal nulla la Wind, terzo gestore di telefonia mobile, «la nostra pepita d’oro», come la definì nel corso della conferenza stampa per lo sbarco in Borsa dell’Enel. Ma l’euforia da new economy giocò anche un brutto scherzo: la Wind si comprò Infostrada per 9 miliardi di euro, una somma enorme che peserà sui conti del gruppo per tutti gli anni successivi, fino alla vendita al finanziere egiziano Naguib Sawiris. Ironia della sorte fu il suo ex datore di lavoro Berlusconi, nel frattempo giunto al governo, a buttarlo giù dal piedistallo. Tatò voleva la riconferma al vertice operativo dell’Enel ma si trovò la strada sbarrata anche da Tremonti. Il nome proposto per sostituirlo era quello di Giuseppe Morchio, già nel consiglio della società elettrica, ma all’ultimo momento dal cilindro di Bruno Ermolli e Gianni Letta spuntò il più affidabile Paolo Scaroni e Tatò, nonostante uno speranzoso volo ad Arcore, non riuscì neanche a mantenere la presidenza. Da quel momento la vita romana, grazie anche alla meravigliosa residenza scelta dalla moglie, ha preso il sopravvento. Con alcuni ritorni di fiamma molto spesso di carattere editoriale: prima nella Rcs del dopo Romiti, chiamato dall’amico di vecchia data Guido Roberto Vitale, una poltrona troppo delicata per un uomo che non ama usare la diplomazia. Poi accetta di entrare nel salvataggio del gruppo Coppola, prima al quotidiano Finanza & Mercati, poi nella Ipi, storica società immobiliare torinese ora confluita nell’orbita della famiglia Segre. In entrambi gli incarichi non rinuncia a mostrare i muscoli e a imprimere forti risparmi che permettono alle società di sopravvivere. Un dogma ricorrente e che ora dovrà applicare, sempre che vada importo l’operazione Mikado, al settore cinematografico.