Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  settembre 21 Lunedì calendario

GERMANIA PER VOCE ARANCIO

Domenica prossima va alle urne la Germania, quarta potenza economica del mondo, al primo posto per quanto riguarda le esportazioni. Negli ultimi quattro anni il Paese è stato governato da una ”Grosse Koalition” (grande coalizione) comprendente i due principali partiti, i cristianodemocratici (Cdu) guidati dalla cancelliera Angela Merkel e i socialdemocratici (Spd) guidati dal ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier, che adesso si affrontano nella speranza di trovare nelle urne la forza per liberarsi l’uno dell’altro.

Le elezioni di domenica non saranno quello che in Germania chiamano Richtungswahl, un punto di svolta. A differenza di americani e giapponesi (vedi l’arrivo al potere del primo nero, Barack Obama, e del primo Democratico, Yukio Hatoyama) i tedeschi non vogliono qualcuno che segni una profonda rottura col recente passato. Un sondaggio di Forschungsgruppe Wahlen stima nel 78% la percentuale dei tedeschi soddisfatti del lavoro fatto negli ultimi quattro anni dalla Merkel, nel 58% quella dei favorevoli a un suo reincarico, nel 60% quella dei favorevoli a una riedizione della ”grosse koalition”.

I primi tre quarti di questa legislatura, gli anni tra il 2005 e il 2008, hanno visto in Germania la creazione di 1,6 milioni di posti di lavoro. Specializzata in beni d’investimento e forte sui grandi mercati emergenti, nel decennio 1999-2008 la Germania ha aumentato dal 25 al 41% il rapporto tra esportazioni e pil: secondo il quotidiano Handelsblatt all’apice del boom le imprese tedesche sono arrivate ad esportare merci per quasi 130 milioni di euro l’ora. Pochi altri paesi europei hanno subito negli ultimi anni un’evoluzione così profonda del proprio modello economico: in Italia la quota delle esportazioni è aumentata nello stesso periodo dal 20 al 24%, in Francia è scesa dal 22 al 21 per cento.

Forte di una popolazione di ”solo” 80 milioni di abitanti, la Germania è diventata il primo esportatore del mondo grazie una manodopera altamente scolarizzata che le ha permesso di sfruttare al meglio ricerca e tecnologia. Le cose però sono cambiate dopo il fallimento della Lehman Brothers, quando gli innumerevoli creditori della banca d’affari statunitense hanno reagito tagliando immediatamente il credito a tutti gli altri clienti, a breve imitati dalla gran parte degli operatori di tutto il mondo. Poiché il commercio internazionale (16mila miliardi di dollari l’anno) si svolge per il 90% con finanziamenti a breve, il blocco ha immediatamente fatto crollare il flusso delle merci tra le nazioni.

Ad aprile la contrazione annua delle esportazioni ha raggiunto il 30%: per questa ragione l’economia tedesca, immune grazie alla sua struttura prevalentemente industriale delle catastrofi finanziarie che hanno devastato Wall Street e la City londinese, ha finito per essere colpita in modo durissimo dalla crisi. Ad aggravare la situazione ha contribuito il fatto che la forte vocazione alle esportazioni delle imprese tedesche nell’ultimo decennio ha avuto come effetto collaterale il rallentamento dello sviluppo del settore dei Servizi, spina dorsale delle moderne economie.

Il problema dei tedeschi, ha ironizzato il settimanale britannico ”The Economist”, è che sembrano dimenticare che in definitiva le esportazioni dovrebbero servire a finanziare le importazioni. Quando l’economia era in boom, i consumatori tedeschi preferivano stare a casa piuttosto che andare in giro a godersi i soldi. Nel 2008 i consumi tedeschi hanno raggiunto appena il 56% del pil contro il 70% degli Stati Uniti.

I tedeschi replicano a queste critiche spiegando che la parsimonia fa parte della loro storia e che odiano pagare qualcun altro per farsi pulire la casa o montare una mensola. Un altro ostacolo allo sviluppo del settore dei servizi è costituito dalle difficoltà nel creare un’impresa: una recente ricerca della World Bank metteva la Germania al 102° posto (su 181) nella classifica del Paesi in cui è più facile avviare un business. Il risultato di questa situazione è che col crollo delle esportazioni i tedeschi non sono riusciti a compensare le perdite con la domanda interna. Per questo la flessione del pil si è spinta ben oltre la media dell’eurozona: per la fine dell’anno si stima un -6,1% annuo contro il -4,8 degli altri Paesi che usano la moneta unica.

Finora il dato più negativo registrato in Germania era stato messo a segno nel 1975 quando l’economia aveva subito una contrazione annua dello 0,9 per cento. Poiché un posto di lavoro tedesco su quattro dipende dalle esportazioni, nel 2010 i disoccupati potrebbero, stando alle previsioni più pessimistiche, sfondare la soglia dei 5 milioni contro una media 2008 di poco superiore ai 3 milioni. Nell’ultimo anno i tedeschi hanno dovuto prendere familiarità con la parola ”prekariat”: Christian Dreger, economista del Diw, istituto economico di Berlino, dice che ormai «un buon quarto dei nuovi posti di lavoro è composto da mini-job da 400 euro e contratti a termine senza garanzie».

La paura del futuro che attanaglia i tedeschi non è dovuta solo alla crisi economica e alla crescente precarizzazione del mercato del lavoro. Un altro grande spauracchio è costituito dal l’invecchiamento della popolazione: oggi gli over 65 sono il 17% della popolazione totale, secondo le previsioni nel 2050 saranno il 30%. In quarant’anni i tedeschi dovrebbero diminuire dagli attuali 82 milioni a 70 milioni, le persone attive che pagano i contributi dovrebbero ridursi a due per pensionato entro il 2030, contro il 10 a 1 del 1960. Letti questi numeri non ci si può aspettare che la scarsa predisposizione a spendere dei tedeschi finisca con l’aumentare.

Nel primo semestre del 2009 in Germania la quota del risparmio sul reddito disponibile è salita al 12,8%, il record degli ultimi 16 anni. Per cercare di far passare ”il mal di consumo” nel Paese sono sorti portali internet come www.sparwelt.de., una miniera di informazioni per chi vuole acquistare al prezzo migliore. Secondo le ultime analisi tre famiglie su quattro comprano da Aldi, la catena di supermercati hard-discount nota per le imbattibili offerte, all’apertura dei cui negozi si verificano scene al limite delle corse all’accaparramento tipiche dei periodi di guerra.

Tra i paradossi dell’economia tedesca, preoccupata per l’aumento della disoccupazione, ci sono i 500mila posti di lavoro vacanti per mancanza di personale qualificato, a cominciare dai 61mila ingegneri che le imprese non riescono a trovare. Il fenomeno colpisce i settori che nonostante la crisi continuano ad assumere (informatica, chimica, alimentare). Sebbene in alcuni casi si tratti di offerte respinte perché poco allettanti, va detto che negli ultimi anni i sussidi alla disoccupazione sono calati drasticamente e i senza lavoro non hanno più interesse a rifiutare posti come facevano in passato. Ciò detto, il 53 per cento dei disoccupati si trova in questa condizione da oltre un anno, il doppio della media nei Paesi sviluppati.

Tra i motivi all’origine delle difficoltà nel riempire certi posti di lavoro, ci sono i problemi incontrati dalle donne in cerca di occupazione: orari scolastici troppo corti, difficoltà nel reperire un posto all’asilo per i figli più piccoli, alte tasse sul secondo reddito familiare.

Tra i lavoratori ”wanted” in Germania ci sono 50mila insegnanti. Il sistema educativo tedesco, un tempo fra i migliori del mondo e alla base della conquista del primato nelle esportazioni, è oggi ridotto alla mediocrità. Poiché nelle grandi città tedesche quasi la metà degli under 15 è figlia o nipote di immigrati, categoria che in genere ha una minore istruzione, negli anni a venire le università tedesche potrebbero avere problemi ancora maggiori nel produrre forza lavoro qualificata. Secondo McKinsey entro il 2020 in Germania mancheranno 2,4 milioni di lavoratori per un costo stimato oltre i mille miliardi di euro.

Tra i problemi dell’università tedesca c’è il sottofinanziamento: le risorse destinate alle fabbriche dei laureati sono poco superiori all’1% del pil, mente gli Stati Uniti, per fare un esempio, grazie agli investimenti privati si avvicinano al 3%. Alla fine non c’è da stupirsi se tra le 100 migliori università del mondo (Shanghai ranking) quelle tedesche sono solo sei, al primo posto quella Monaco di Baviera, 55ª. Di cento tedeschi che iniziano gli studi, solo 21 arrivano alla laurea (la media nei Paesi sviluppati è quasi doppia, 37%), e tra questi, soprattutto per quanto riguarda i settori più tecnologici, molti si presentano sul mercato del lavoro senza una specializzazione sufficiente per trovare un buon impiego.

Purtroppo per i tedeschi, trovare i soldi per l’improcrastinabile riforma dell’istruzione rischia di diventare sempre più difficile: secondo il ministero delle Finanze di Berlino, le entrate fiscali 2009 ammonteranno a 537 miliardi di euro, 45 miliardi meno di quanto previsto a novembre. Il deficit 2009 dovrebbe sfiorare gli 80 miliardi, un record dalla fine della seconda guerra mondiale: finora l’anno peggiore era stato il 1996, con un deficit di 40 miliardi. Nel periodo 2009-2012 è stimato un ammanco di 316 miliardi di euro. La classifica mondiale del debito pubblico vede la Germania sul podio, 2540 miliardi di euro che la mettono al terzo posto dietro Stati Uniti e Giappone, con un rapporto sul pil che dovrebbe passare dal 67% del 2008 all’87% del 2010 (per entrare nell’euro bisognava stare sotto il 60%).

Nell’ultima campagna elettorale l’argomento tasse è stato centrale. Attualmente quasi la metà dei tedeschi in pratica non paga imposte sul reddito (ma paga carissimi contributi sociali per finanziare assistenza sanitaria e sussidi di disoccupazione). Basta però superare del 30% il reddito medio per incorrere nell’aliquota massima, 42% (c’è un aliquota superiore ma riguarda solo i 25mila cittadini più ricchi). Durante la campagna elettorale si è parlato molto di un taglio delle tasse, con un innalzamento della soglia di reddito oltre la quale scatta l’aliquota del 42%, ma recenti sondaggi mostrano che la riduzione non è in cima ai desideri dei tedeschi, che chiedono anzi un aumento, purché destinato alle sole classi abbienti.