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 2009  settembre 21 Lunedì calendario

L’Italia e le grandi alleanze del gas - «Tutti vogliono il gas russo? Di questi tempi il rischio è che glielo diano per davve­ro »

L’Italia e le grandi alleanze del gas - «Tutti vogliono il gas russo? Di questi tempi il rischio è che glielo diano per davve­ro ». Se si paragonano i prezzi correnti a quelli di un anno fa, la battuta un po’ criptica di uno dei maggiori tra­der del mercato europeo si compren­de meglio. Oggi il gas si vende a 18 centesimi di euro al metro cubo, dodi­ci mesi fa si era sui trentacinque. I consumi italiani sono in calo del 12%, più o meno come quelli continentali. Risultato: per big come Eni, E.On o Gdf-Suez di questi tempi il rischio è lavorare in perdita. Anche perché i contratti internazionali, compresi quelli con i russi, prevedono la clauso­la del take or pay : paghi Gazprom, an­che se il gas che ti spetta non lo ritiri. Rinvii il prelievo, e la vendita, confi­dando nell’anno successivo.

Ma se le cose stanno così, perché il monopolista francese dell’energia nu­cleare Edf, a ruota del recente vertice Parigi-Mosca, ha confermato di vole­re entrare (con il 10%) nel South Stre­am, il progetto di gasdotto Eni-Gaz­prom che scavalcando la «riottosa» Ucraina sbucherebbe dal Mar Nero nei Balcani? E come mai, subito do­po, il nuovo ambasciatore Usa in Ita­lia, David Thorne, è tornato a battere sul tasto dell’eccessiva dipendenza energetica europea, e italiana, da Mo­sca? Sarà anche stata una coincidenza tra impegni già presi, ma pochi gior­ni dopo le affermazioni di Thorne, il capo dell’Eni, Paolo Scaroni, partiva per gli States. Dove ora torna per par­lare domani all’Onu sul clima. 

Consumi in picchiata e crisi, a quanto pare, non servono a frenare la grande partita del gas, che prosegue a pieno ritmo. E anche se può sembra­re paradossale, i grandi gruppi si stanno attrezzando per affrontare uno degli effetti perversi della reces­sione, il timore di forti tensioni su di­sponibilità e prezzi dell’energia che potrebbero concretarsi nei prossimi anni. Un’esagerazione? Non tanto se si pensa che la crisi ha causato la can­cellazione o il ritardo di parecchi pro­getti di esplorazione nel petrolio e nel gas: cinquantacinque secondo l’International Energy Agency. Riav­viarli e portarli in produzione richie­derà tempo, e il timore è che lo sfasa­mento tra la ripresa e l’arrivo dei nuo­vi idrocarburi – non prima di 4-5 an­ni – possa essere fonte di guai seri.

 Le compagnie europee, così, si muovono in anticipo o rinsaldano vecchi legami: quelli di Eni e dei tede­schi di E.On con Gazprom sono stori­ci e si sono rinnovati di recente. Gaz de France guarda al progetto del Nord Stream, il gasdotto sottomari­no dalla Russia che taglierebbe fuori i Paesi baltici e la Polonia. Vorrebbe una quota del 9% e già vi si trovano gli olandesi di Gasunie, E.On e Basf. Ma le utility cercano anche di metter­si in tasca dei giacimenti veri e pro­pri, non solo contratti di fornitura. L’hanno dichiarato la stessa E.On, Rwe, GdfSuez, che per questa via puntano più o meno al 10% dei pro­pri bisogni. Persino l’Enel ha da poco creato una struttura per l’ upstream, che ha acquistato un pezzo di conces­sione in Egitto (con Total) ed è in liz­za per i pozzi padani e adriatici messi in vendita dall’Eni. La stessa Edf lo scorso anno non ha rinunciato a spendere 300 milioni di euro per assi­curarsi attività gas nel mare del Nord, malgrado stesse facendo shop­ping costoso nel nucleare, compran­do British Energy e Constellation. L’ingresso in South Stream, unito a una congrua fornitura pluriennale di gas da Gazprom, rientra dunque in questo scenario. Edf vuole costruire qualche centrale a gas in casa pro­pria, e in Europa ha controllate che lo userebbero, da London Energy a Enbw in Germania e Edison in Italia. a questo punto però che la faccen­da inizia a diventare un po’ più «politi­ca». La mossa francese sul gasdotto Eni-Gazprom è in qualche modo ob­bligata se si pensa ai difficili rapporti tra Francia e Turchia, dove dovrebbe passare invece Nabucco, il gasdotto concorrente sponsorizzato dall’Ue e benvisto dagli Stati Uniti. Da tempo il presidente francese Sarkozy si oppo­ne all’ingresso di Ankara nella Ue, una posizione che costituisce un osta­colo anche per i suoi rapporti con Ba­rack Obama. Ruggini che non riguar­dano invece la cancelliera Angela Me­rkel, che in vista delle elezioni di fine mese si è ben guardata dal contraria­re la minoranza turca. Così, oltre al Nord Stream, la Germania legata a doppio filo con Gazprom si può con­cedere anche una presenza in Nabuc­co tramite l’altro colosso Rwe, men­tre la francese Gdf-Suez si è vista sbat­tere la porta in faccia dal consorzio.

Alla fine, però, il pericolo è che tut­te le strade del gas portino a Mosca. Di questa prospettiva si è occupato, ad esempio, uno studio del Center for Eurasian Policy dell’Hudson Insti­tute («Security aspects of the South Stream project») messo a disposizio­ne qualche mese fa del Parlamento europeo. In attesa dello sdoganamen­to delle enormi riserve irachene e ira­niane, dove dovrebbe pescare Nabuc­co, e considerando che l’area del Ca­spio è condizionata dai veti russi (co­me nel caso di una pipeline che ne at­traversi le acque), gli scenari più reali­stici di forniture prossime venture ri­conducono a Mosca, a Gazprom e al­la capienza delle sue risorse. Il gas di South Stream (60 miliardi di metri cu­bi l’anno) sarebbe per lo più sostituti­vo di quello che ora passa per l’Ucrai­na, si aggiunge, un fatto che mette­rebbe Kiev alla mercé energetica (e quindi politica) del potente vicino. Qualche dubbio sulla trasparenza, si chiede per inciso l’Hudson Institute, potrebbe nascere dall’aver scelto la Svizzera come sede della joint-ventu­re per il gasdotto.

Ecco perché gli Stati Uniti, e l’am­basciatore Thorne, suonano pervica­cemente la nota della sudditanza energetica dal Cremlino. Con quale genere di pressioni? Senza arrivare a «inviti» più o meno informali a Washington o all’ambasciata di Via Veneto, come ricorda qualche ex con­sigliere dell’Eni, non si può dimenti­care che più del 10% del capitale del Cane a sei zampe fa capo a fondi nor­damericani. E proprio di recente il newyorchese Knight Vinke (proprie­tario dell’1%) è uscito allo scoperto chiedendo una separazione delle atti­vità del gruppo, sostenendo, tra l’al­tro, che su queste faccende sia arriva­to il momento di un «informato di­battito su dove veramente stia l’inte­resse nazionale italiano».

 Visto da Est, invece, il rinnovato as­se energetico con Parigi costituisce per Mosca un’altra apertura di credi­to dopo le relazioni «speciali» instau­rate con Roma e Berlino. In particola­re, un secondo partner occidentale come Edf nel South Stream rende il progetto più solido. Dello stesso effet­to, peraltro, potrebbe godere anche l’Eni: gli strali americani dovrebbero rivolgersi anche ai francesi, mentre con la loro presenza sarebbe condivi­sa una parte degli investimenti pre­ventivati, che sono nell’ordine dei 20-24 miliardi di euro per un’opera tecnicamente complessa nel tratto a duemila metri di profondità, e che po­trebbero lievitare a scapito dell’eco­nomicità della materia prima e delle tasche dei consumatori. Anche se a beneficiarne potrebbe essere la Sai­pem, il dibattito interno al gruppo pe­trolifero sull’opportunità o meno di un impegno così gravoso non pare del tutto chiuso, e sarebbe oggetto di qualche dubbio dei consiglieri indi­pendenti. Il calendario per la realizza­zione del South Stream non è fissato strettamente, ma dopo la conclusio­ne dello studio di fattibilità (l’anno prossimo?) il nodo dell’ investment decision verrà al pettine. E con esso la controprova delle grandi manovre di oggi.