Luciano Borghesian, la Stampa 21/09/2009, 21 settembre 2009
DUE ARTICOLI DELLA STAMPA SULL’OMICIDIO GHIGLIENO
«PAPA’ UCCISO PERCHE’ UOMO DEL DIALOGO» -
«Più passa il tempo, più sente la mancanza di nostro padre. Mamma ha 81 anni, quel mattino di trent’anni fa, aveva l’età che abbiamo noi oggi. Insegnava alla Manzoni, ed era l’ombra di papà. Ci chiedemmo come avremmo fatto: fu grazie a lei, proprio nel momento in cui veniva a mancare un pilastro così importante della nostra vita, che capimmo quanto la nostra famiglia fosse costruita su basi solide», a ritornare sugli anni di piombo sono i figli di Carlo e Maria Matilde Ghiglieno: Giorgio ha 53 anni, ed è dirigente di una banca estera a Milano; Alberto, 51 anni, è dirigente industriale.
Li incontriamo a «La Stampa», alla vigilia della trentennale commemorazione della morte del padre, che sarà oggi, alle 10, al cimitero monumentale di Torino. Lasciamo a loro il racconto di quella stagione, che per tutti i familiari delle vittime dei terroristi non ha mai fine.
«Ricordandolo sul giornale potreste non pubblicare quella foto con papà crivellato di colpi?
«Il coraggio di quelli lì di Prima Linea era di sparare alle spalle. E dire che lui se avesse potuto avrebbe parlato con loro... Romiti ha detto che "Era un uomo mite, molto attaccato alla famiglia, tutto lavoro e casa. Ma prima di ogni cosa era un uomo buono. Ecco, se immagino un uomo non violento, contrario alla violenza per struttura mentale, per carattere, per principi ideali penso a Ghiglieno". A un collega americano, John Brilman, pochi giorni prima, papà aveva scritto: ”La nostra amicizia può fiorire e crescere mentre condividiamo l’interesse per l’umanità, l’amore per i poveri e le minoranze”. Due giorni dopo l’omicidio, ”La Stampa” pubblicò ”una lettera aperta agli assassini”, firmata da due persone coraggiose, Maria Ludovica Lombardi e Riccardo Varvelli: "Ciò che avete fatto ricadrà su di voi molto oltre il tempo e non vi è possibilità di perdono né di comprensione”.
«Ai quattro nipoti, ai nostri figli che non lo hanno mai conosciuto, mamma e noi abbiamo sempre cercato di spiegare che ”nonno Carlo amava il suo lavoro, lo faceva con entusiasmo e per questo è morto”. Ma non riescono a capire il clima di quegli anni, in cui si arrivava a uccidere così, alle spalle, senza motivi... Ora Torino, fortunatamente, è un’altra, impossibile immaginare quel clima.
«Con i nostri ragazzi ci siamo sforzati di imitare il suo esempio di genitore coerente, impegnato, generoso, con molti interessi.
«Arrivava dall’Olivetti, dalla scuola di Adriano dell’azienda attenta al sociale: si era laureato al Politecnico a 21 anni e fino al ”74 lavorò a Ivrea, poi alla Fiat. Era un uomo che amava dialogare, i terroristi sceglievano chi aveva queste caratteristiche per... far politica. Così hanno ucciso baristi, passanti, lo studente diciassettenne Emanuele Iurilli, vittima di un agguato ai poliziotti. Era figlio unico, i genitori avevano mille sogni per lui...
«Alcuni degli assassini ci hanno cercato, ma noi - che li abbiamo inseguiti in tutti i gradi di giudizio, anche costituendoci parte civile - abbiamo fatto cadere ogni loro tentativo. Si erano fatti vivi prima delle condanne, mai abbiamo voluto sentirli, né lo vorremo adesso. Il perdono è un fatto soggettivo».
«Nell’88, quando si cominciò a proporre soluzioni per chiudere i conti con i terroristi, scrivemmo proprio su ”La Stampa” che ”il modo migliore di onorare le vittime e di rispettare i loro congiunti è sicuramente quello di celebrare processi equi, accurati e rapidi e di evitare i periodici clamori e i dubbi retorici di improbabili pacificazioni”. Per quanto ci riguarda, lo Stato, le istituzioni hanno fatto quanto dovevano nelle indagini e nei processi: i responsabili sono stati arrestati e condannati. Ci è stata molto vicina la Fiat, l’azienda nel suo insieme, operai, impiegati, dirigenti. Uomini.
«Da tempo vediamo il ritorno di ex terroristi con libri, in cinema, teatro, tv, anche a nome di comunità caritatevoli: danno lezioni. Sergio Segio a nome del Gruppo Abele? Se non ne fa parte, lo si smentisca. Ci amareggiano certi show. Il libro di Calabresi ci ha fatto riprovare quelle sensazioni che ti struggono nell’insanabile dolore.
«Servono le commemorazioni per ricordare atrocità da non rivivere. Grazie al compianto Maurizio Puddu e all’Associazione Vittime del Terrorismo, grazie a colleghi di mio padre feriti dalle Br, come Bruno Diotti, ha riavuto voce chi era stato dimenticato e lo Stato, dopo anni, si è dato leggi per assistere feriti, orfani e familiari.
«I terroristi volevano scavare un solco con chi voleva far progredire il Paese con il lavoro onesto di tutti i giorni? Ci sono riusciti. Di là sono rimasti solo loro».
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«QUANDO NELLA FABBRICA SPADRONEGGIAVANO LE BR»
I figli delle vittime del terrorismo sono alla ricerca della verità e sono loro che possono aiutare a far luce. Al contrario di chi ha seminato morte», Carlo Callieri, che dall’inizio di quel tragico 1979 era capo del personale della Fiat Auto, cita i libri scritti da Sabina Rossa, Mario Calabresi, Andrea Casalegno, la prossima pubblicazione di Benedetta Tobagi in contrapposizione alla produzione di film, rappresentazioni teatrali, documentari, interviste che «mettono sul pulpito gli assassini». Una produzione «dilagante» che Callieri apostrofa «stereotipa (ripetuta senza nulla aggiungere)» e «agiografica (che esalta, mitizza)»: «Basta con coloro che hanno tolto vita, che hanno rovinato famiglie. Devono portare sulla carne le loro responsabilità, fino all’ultimo giorno. Meditino loro, in silenzio». Delle inchieste giornalistiche promuove solo quelle Rai di Giovanni Minoli con «La storia siamo noi».
Critica «chi si è compromesso con quei killer: è un imbecille, arido, presuntuoso, incapace di vedere oltre le proprie idee» e che, forse, scambia complicità con quanti hanno insanguinato il Paese: «Il magistrato di Padova, Calogero, aveva visto giusto», e ricorda il «teorema» che affondava sull’humus intellettuale, accusa le latitanze protette in Francia, sentenzia: «La società che dà loro spazio è suicida».
A distanza di 30 anni, Callieri è rimasto l’uomo che - voluto da Umberto Agnelli - riconquistò la fabbrica sfuggita all’Azienda. A quel tempo, l’allora presidente del Consiglio regionale Dino Sanlorenzo richiamò le carenze della Fiat che aveva guardie e custodi per vigilare e denunciare. Così arrivò John Wayne, soprannome datogli da Diego Novelli, sindaco di Torino ”75-’85, o Khomeini l’Ayatollah, come lo chiamavano in corso Marconi. «Quando - ricorda Callieri - tornai a Torino dopo un’esperienza al ministero del Lavoro nella stagione del compromesso storico e dell’omicidio Moro, trovai una fabbrica allo sbando, i capi erano in balìa di fancazzisti». C’erano atti di violenza, minacce: «Pochi giorni dopo il mio arrivo fu colpito un capo officina, Giuliano Farina, poi un sorvegliante delle presse, Giovanni Farina, gli spararono a casa davanti a moglie e figliola». Era il quindicesimo ferimento di uomini Fiat. Attentati a Mirafiori, Rivalta, Chivasso. «I capi trascinati nei cortei, picchiati. La città, fuori, sembrava lontana, nonostante le uccisioni di Croce, Casalegno, dei poliziotti Berardi, Ciotta...». Br e Prima Linea gambizzavano, il 4 ottobre toccò, sotto gli occhi dei congiunti, a Cesare Varetto, responsabile delle relazioni sindacali della Carrozzeria.
La Fiat, condannata per le schedature, perse il controllo delle assunzioni, mentre negli stabilimenti giungeva l’onda del ”68. Cesare Romiti, l’ad, in un’intervista post-terrorismo, rivelò che in quel periodo risultarono assunti 800 autonomi.
Callieri collaborò col generale Dalla Chiesa: i carabinieri scoprirono un alloggio di corso Traiano dove un’infermiera teneva un elenco Br, così si arrivò all’arresto di Patrizio Peci, e di qui a quello di Roberto Sandalo, il quale svelò il retroscena sull’agguato «omicidiario» di Ghiglieno. Nel mirino di Pl figuravano l’ad di Fiat Auto Ghidella, Ghiglieno o Costamagna, responsabile dell’Informatica. «Povero Carlo - commenta -, quelli di Prima Linea avevano letto il suo nome sul ”Giornale dei capi” (ndr, il padre di Sandalo lavorava alla Fiat), che si occupava di ”pianificazione logistica”, chissà cosa avevano immaginato, era una funzione completamente interna, finalizzata al materiale, non agli uomini».
La Fiat era decotta: uno spreco del 28 per cento che incideva sul mercato (prezzi, vendite), un debito di 8500 miliardi, le immatricolazioni in Italia scese dal 75% al 51 (nel 1979: 200 mila vetture prodotte in meno).
Il piano per riportare la Fiat a essere un’azienda competitiva passò attraverso ricostruzioni di fatti interni e denunce (senza esporre i propri quadri), 61 licenziamenti («Alcuni erano terroristi, altri fiancheggiatori, autonomi, almeno una trentina»), poi 14.469 lettere di licenziamento... «Le proteste invasero Torino, strade interrotte, bus fermati, pestaggi. La città capì. Ai 35 giorni di sciopero, si rispose scendendo in piazza», ricorda Callieri che organizzò la marcia dei 40 mila, la svolta storica. «Le perdite di produzione scesero dal 28 all’8 per cento, e questo mise in luce le eccedenze. Certamente spiaceva per molti lavoratori, per lo più giunti dal Meridione: la colpa era stata anche di un management non all’altezza, che approfittava del caos per fare interessi propri. Continuavano ad assumere e non c’era bisogno». Pagò la città, costretta a un’immigrazione massiccia, repentina: «Io licenziai 80 dirigenti!».
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