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 2009  settembre 21 Lunedì calendario

 SEMPRE DOMENICA


ERA dunque domenica e, partendo, non ci avevamo pensato, convinti di essere a Roma, con quella macchina, nelle prime ore del pomeriggio. Fu invece il più lungo dei viaggi che io ricordi quando, a notte alta, arrivammo a Roma, io Alberto e Carlo eravamo – e poi siamo rimasti – nello stato d’animo di un’amicizia che si era realizzata e conclusa, esaurita, proprio per quel viaggio. La lunga domenica italiana ci aveva svuotati e divisi. Ma fu pure un viaggio che resta nella mia memoria e, penso, anche nella loro, indimenticabile. Perché mai un paese si era mostrato ai nostri occhi in aspetti più ingenui, casti e familiari e infine amabilissimi.
Era dunque domenica e, partendo, eravamo convinti di essere presto a Roma, avremmo trovato le strade libere. Ma già, superata Lodi, Carlo prese a guidare come un gatto assonnato e Alberto riassunse il pensiero di tutti dicendo che potevamo andar piano, non avevamo fretta. Metteva infatti, quel paesaggio così utile e grandioso, di larghi campi verdi e di alberi in fila, una dolce indifferenza alla velocità e una sempre più divertita attenzione agli spettacoli che ci si offrivano. Verso Piacenza commettemmo il primo errore; prendemmo una strada di campagna, tra grigie cascine guardate da cani dallo sguardo severo che ci seguivano per un buon tratto senza abbaiare. Volevamo arrivare ad un punto del Po dove la vista del fiume si spiegava particolarmente imponente per la distanza tra le due sponde ma, sbagliando strada, arrivammo infine nella piazzetta di un villaggio dove un solo giovane vestito di blu, e con un fiore all’occhiello, ci fece ricordare che quel giorno era appunto domenica. (...) Fu qui che perdemmo la nostra occasione di arrivare a Roma in poche ore, nella contemplazione di uno spettacolo anch’esso domenicale, perché nessun rumore, oltre quello possente dell’acqua, poteva richiamarci ad una realtà solita. Le città, le strade sembravano lontane e anche loro placate dal suono di una campana festiva che veniva dall’argine opposto.
Poi, la domenica cominciò come un balletto, portandoci a deviare sempre più dalla nostra strada. Stavamo cercando di raggiungere Parma, quando la fugace apparizione di una bellissima ragazza sulla porta di una piccola casa che un fosso divideva dal nostro cammino, ci fece arrestare di colpo. O immagine pura, appena intravista e già persa! Tornando indietro con la macchina, per rivedere da vicino quella bellezza che ci aveva sorriso e fatto un cenno di saluto, noi credevamo che ella fosse rientrata e forse lo desideravamo. Era invece ad aspettarci, con la calma di una regina che non ha niente da temere e che non deve neppure nascondere le sue curiosità. Le chiedevamo: «Parma?», indicando davanti a noi e lei, sorridendo, faceva cenno di sì, sapeva bene che la nostra domanda era inutile; e infine ci offrì delle rose che stava tagliando da una pianta abbarbicata al muro della sua casa. Non sapemmo far altro che ringraziarla e andarcene, presi dalla strana commozione di un incontro che ci appariva sempre più carico di significati, che in realtà non aveva. Ma era l’incontro delle favole; e per un poco stemmo muti a fantasticare le possibili soluzioni di un’avventura tanto felice, finché Carlo si batté la mano sulla fronte e disse che avrebbe potuto ben offrirle di lavorare nel cinema, tanto per attaccare discorso e mettere le basi di una futura amicizia. (...) Era un’Italia così intima nel suo riposo da toglierci ogni meraviglia per gli spettacoli che dovevano seguire: la improvvisa corsa di biciclette che si annunciò e ci superò verso Pontremoli, in un festoso arrancare di colori e di grida di incitamento, con quei giovani dall’occhio spento nello sforzo della pedalata e gli ultimi che venivano senza perdersi di coraggio, ma anzi a non far sorridere del loro ritardo; o la giostra all’uscita di un paese, quattro sedili che volavano nel vento, un gruppetto di ragazzi in attesa del loro turno, quei ragazzi della domenica vestiti e ravviati come ometti, l’orlo di un fazzoletto che sbuca dal taschino della giacca; o la fermata ad un passaggio a livello, dove continuavano il via-vai, inchinandosi sotto le sbarre, famiglie anch’esse vestite a festa, le bambine con la borsetta, le mamme col cappotto nuovo, i padri presi dalla giusta malinconia di un pensiero familiare. (...)
Pensavo a quell’Italia che avevo intravisto nella sua felicità di un giorno ed ero preso da una lieta commozione, alla quale si mischiavano lontani ricordi di altre domeniche di paese, al valore che aveva allora, per noi ragazzi, questo giorno mal cantato dai poeti: alla domenica, ormai suggerisce di noia e di evasioni impossibili. Oh, poter ritrovare quei pensieri senza far appello alla antica saggezza di nessuno, senza illanguidirsi sulla modestia dei piaceri! Ma, soltanto, evocando in quella perduta semplicità un respiro più profondo, una grazia più accesa, la pazienza di una gente che vive senza grandi progetti per il futuro, legata alle sue pietre, ai suoi fiumi, alle sue feste, ai suoi paesi così assurdi e, naturalmente, alle sue secolari avversità.