varie, 19 settembre 2009
IL PIL, PER VOCEARANCIO
’Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones né i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il Pil comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine del fine-settima... Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione e della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia e la solidità dei valori familiari. Non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali, né dell’equità dei rapporti fra noi. Non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio né la nostra saggezza né la nostra conoscenza né la nostra compassione. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta». (Robert Kennedy – Discorso tenuto il 18 marzo 1968 alla Kansas University).
Melchiorre Gioia nel 1839 chiedeva che la felicità venisse misurata dalla statistica.
Come si misura la ricchezza di una nazione? Da cinquant’anni guardiamo il suo Prodotto interno lordo. Il Pil è la somma di tutti i beni e i servizi prodotti e destinati a usi finali (cioè sono esclusi i beni intermedi, se non quelli esportati). Ogni bene o servizio si moltiplica per il suo prezzo, i servizi pubblici che non si vendono vengono valutati in base al costo degli stipendi dei dipendenti e dei macchinari che utilizzano, ci si aggiungono le tasse sul valore aggiunto e si ottiene il Pil, che è calcolato al lordo degli ammortamenti, gli investimenti per compensare il logorio dell’apparato produttivo.
Certo, i soldi non sono tutto. Il Pil ignora quasi tutte le attività non economiche. Il risultato è paradossale: se un contadino che con il suo lavoro manteneva l´intera famiglia, con un ricorso minimo a scambi in denaro, va in città a fare il muratore pagato una miseria, il Pil figura aumentato, ma la sua famiglia soffre la fame. uno dei motivi, tra l´altro, per cui il Pil della Cina è sopravvalutato. In secondo luogo, il Pil ignora le disuguaglianze: i redditi da 1 milione di euro l´anno fanno media, nel Pil pro capite, con le pensioni da 5000. Ignora anche il consumo delle risorse non rinnovabili, per cui un chilometro quadrato di foresta amazzonica abbattuta compare come attivo nel Pil alla voce "produzione e commercio di legname", non però come passivo alla voce "contributo al degrado del clima".
E poi non sono ricchezze anche il tempo libero, l’aria pulita, gli ospedali che funzionano, le scuole che insegnano per bene? Non è una ricchezza anche la felicità? Sì, secondo la ”Commissione sulla misurazione delle performance economiche e del progresso sociale” messa in piedi da Nicolas Sarkozy, che ha proposto un Prodotto interno lordo alternativo in grado di tenere conto di tanti elementi, considerati importanti per la determinazione del benessere economico di una nazione ma esclusi dalla misurazione attuale del Pil.
Negli ani Settanta, in Buthan, piccolo stato a cavallo tra India e Cina con meno di un milione di abitanti, il re Jigm Singye Wangchucl introdusse l’indice di Gross national happiness, cioè Felicità interna lorda. Includeva la capacità della popolazione di realizzare le proprie capacità spirituali secondo il concetto buddhista di UJimba. Il Buthan risultava essere la nazione più felice del mondo.
La Commissione organizzata dal presidente francese ha lavorato per 18 mesi. Venticinque economisti di fama mondiale – presieduti dal premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz e coordinati dal francese Jean-Paul Fitoussi con la supervisione di un altro premio Nobel, l’indiano Amartya Sen – alla fine hanno prodotto un rapporto lungo 291 pagine in cui spiegano come si potrebbe migliorare l’indicatore della ricchezza di una nazione. Il rapporto presenta 12 raccomandazioni e 3 messaggi.
Le raccomandazioni per valutare meglio il benessere materiale: 1) Analizzare i redditi e il consumo piuttosto che la produzione; 2) Rafforzare l’analisi della ricchezza focalizzandola sul punto di vista delle famiglie; 3) Tenere conto dei patrimoni, per distinguere chi spende tutto subito da chi risparmia producendo benessere futuro; 4) Dare più importanza alla ripartizione dei redditi; 5) Estendere gli indicatori alle attività non direttamente legate al mercato, come il pulire casa o l’accudire i bambini; 6) Migliorare la valutazione di sanità, educazione e condizioni ambientali; 7) Valutare meglio le ineguaglianze tra le generazioni e i sessi; 8) Realizzare inchieste per capire come le evoluzioni in un settore della qualità della vita hanno ripercussioni su altri; 9) Creare una misura sintetica della qualità della vita; 10) Integrare in queste inchieste l’evoluzione effettuata da ogni cittadino nel corso della propria esistenza; 11) Valutare la sostenibilità del benessere; 12) Stabilire indicatori precisi che quantifichino le pressioni ambientali.
Oltre al ”dodecalogo” delle raccomandazioni, la commissione ha elaborato tre messaggi: il primo per spiegare che oggi non abbiamo strumenti adeguati per fare proiezioni sulla sostenibilità, intesa come benessere futuro, e quindi dovremo limitarci a fornire cifre per segnalare ”rischi” di insostenibilità; il secondo per chiarire che gli statistici e gli economisti non possono assumersi il compito di scegliere cosa intendere quando si parla di benessere, perché questo spetta alla politica; il terzo per aggiungere che, qualsiasi criterio di benessere si scelga, bisognerà inquadrarlo in un’ottica internazionale.
Stefan Bergheim, analista di Deutsche Bank, ha diviso i paesi Ocse in tre categorie: la variante felice del capitalismo (come negli Usa), quella meno felice (come in Francia), quella triste (come in Italia).
’Basta con la religione delle cifre” ha detto Sarkozy presentando il rapporto, ”se misuriamo le cose sbagliate faremo le cose sbagliate” ha aggiunto Stiglitz. Il professor Francesco Forte: ”Amartya Sen è soprattutto un acuto filosofo dell’economia, che critica oil benesserismo come riduzione dell’economia a scienza del denaro. Non è attrezzato il Pil ”dal di dentro” quanto per sostituirlo con qualcos’altro. Joseph Stiglitz, è un camaleonte. Nel suo libro di economia pubblica la teoria del massimo benessere è ispirata al più ingenuo economicismo. Ora lo ripudia. Jean-Paul Fitoussi è un macro economista dirigista un tempo molto di sinistra, ora consulente di Sarkozy”. Per Forte ”il quantificatore universale della felicità è un’idea paracollettivista”.
Dietro questo nuovo Pil c’è anche un evidente obiettivo politico ”Lavorare di più per guadagnare di più” era uno degli slogan della campagna presidenziale di Sarkozy, che aveva promesso di alzare di un punto percentuale il trend di crescita dell’economia francese. Che invece si è dimezzato. Il nuovo Pil che la commissione sta preparando non è ancora stato applicato alle varie economie. Ma Fitoussi e Stiglitz hanno anticipato che il nuovo indicatore ridurrebbe il divario tra la ricchezza pro capite degli americani e quella dei francesi dal 14 al 7%. Anche l’Italia, dicono alcuni, farebbe molti passi avanti.
In un’intervista al Monde, Fitoussi ha spiegato che negli ultimi dieci anni il Pil americano pro capite è cresciuto del 9 per cento, ma il reddito del 50% più povero della popolazione è diminuito di un ulteriore 4 per cento.
Tra i membri della commissione anche l’italiano Enrico Giovannini, nominato quando era capo della statistica dell’Oce e oggi rientrato in Italia come direttore dell’Istat. All’Ocse Giovannini aveva già lanciato, nel 2004, il ”Global project on measuring the progress of the societies”. Ora che è uscito il rapporto chiesto da Sarkozy l’economista spiega: ”Non abbiamo trovato il santo Graal, né l’indicatore unico del progresso, ma stiamo facendo passi avanti verso un nuovo paradigma economico. La complessità non può ridursi a un numero e questo è il primo dei nostri messaggi . Il secondo è che bisogna passare dall’attenzione spasmodica alla produzione a una valutazione del benessere effettivo”.
Ad alcuni economisti italiani questo nuovo Pil è piaciuto molto, ad altri non è piaciuto per niente. Giulio Sapelli, docente di Storia economica all’Università di Milano: ”Con la crisi appena agli inizi abbiamo davvero il tempo e le energie da sprecare nella ricerca di nuovi indicatori per sostituire il Pil? Non vorrei che l’iniziativa francese costituisse un’inutile distrazioni dai problemi che dobbiamo risolvere. Sembra un neopopulismo new age”. Luigi Campiglio, prorettore della Cattolica di Milano: ”Le misure di performance economica e di progresso sociale adottate ancora al giorno d’oggi sono figlie della società industriale, di un mondo che non c’è più. I nipoti dei nostri nipoti ragioneranno sulla base di categorie concettuali diverse, e di certo non prenderanno in considerazione il semplice Pil come indice dell’avanzamento di uno stato. Portarsi avanti, guardare al futuro, non può che dare frutti positivi”.
L’utilizzo del Pil ha dato ai governi di tutto il mondo uno strumento per valutare la ricchezza della propria nazione. I responsabili del Dipartimento al Commercio Usa, in un apposito evento di fine millenio, il 7 dicembre 1999, hanno definito il Pil ”il più grande nostro contributo al XX secolo”.
Se il Pil ha un padre questo è Simon Kuznets, giovane ebreo nato in Bielorussia e cresciuto in Ucraina, emigrato negli usa ventunenne nel 1922 e dal 1930 docente all’Università della Pennsylvania. Nel 1929 il presidente americano era Franklin Delano Roosevelt, la crisi gli era scoppiata in mano e lui cercava di trovare un senso in mezzo alla miriade di cifre – dai noleggi di auto agli acquisti di cavalli – che gli permettessero di capire come andavano davvero le cose. Si affidò al Dipartimento del commercio, che diede proprio a Kuznets l’incarico di trovare un indice che quantificasse le dimensioni di un’economia.
Nel 1937 Kuznets presentò il risultato dei suoi studi al Congresso e nel 1941 in un libro ”National income and its composition, 1919-1938”. Per aiutare il New Deal di Roosevelt era troppo tardi. Il Pil elaborato da Kunets funzionava invece benissimo per programmare la produzione bellica per la seconda guerra mondiale e, successivamente, per definire il Piano Marshall con cui gli Stati Uniti avrebbero aiutato l’Europa a rialzarsi.
I premi Nobel Paul Samuelson e William Nordhaus: ”Allo stesso modo di un satellite che nello spazio può sorvegliare la situazione meteorologica di un intero continente, così il Pil dà un quadro completo sullo stato dell’economia. Rende così possibile al presidente, al Congresso, alla Fed di giudicare se l’economia si sta contraendo o espandendo, se l’economia richiede una spinta o non debba essere invece frenata un poco, o se incombe la minaccia di una vera recessione o di inflazione”.
Kuznets vince il premio Nobel per l’economia nel 1971. La motivazione: ”Per l’interpretazione, empiricamente fondata, della crescita economica, che ha portato ad una nuova e più approfondita analisi della struttura sociale ed economica e del suo processo di sviluppo”. Lui stesso, comunque, ha sempre invitato tutti alla cautela nell’utilizzo delle cifre sul Pil. Nel 1937, presentando la sua ricerca al Congresso, chiarisce che ”difficilmente il benessere di una nazione può essere ricavato dal misurare il reddito nazionale”. In uno scritto del 1962 aggiunge: ”Bisogna sempre tenere presente la differenza sulla quantità e la qualità della crescita, tra i costi e i guadagni, tra il breve e il lungo periodo. Porsi l’obiettivo di crescere di più dovrebbe specificare in che cosa e per cosa crescere”.
Scrive Stiglitz nel suo rapporto: ”I problemi del traffico possono contribuire a far crescere il Pil perché aumenta il consumo di benzina. Ma ne risulta migliorata la qualità della vita?”.
Lo standard internazionale per misurare il Pil è contenuto nel libro ”System of National Accounts” (1993), preparato da rappresentanti del Fondo monetario internazionale, dell’Unione europea, dell’Ocse, delle Nazioni Unite e della Banca mondiale. La pubblicazione è normalmente identificata come SNA93, per distinguersi dalla edizione precedente, del 1968 (lo SNA68). Nel libro sono contenute una serie di regole e di procedure per misurare i conti pubblici. Gli standard sono flessibili, per adattarsi alla differenze di condizione e capacità dei diversi uffici statistici locali.
Ormai da anni organizzazioni diverse propongono altri indici per calcolare la crescita. L’Indice del benessere economico sostenibile, introdotto nel 1989 da Herman Daly e John Cobb, toglie dal Pil i danni ambientali e i costi sociali. Dal 1993 esiste l’indice di sviluppo umano, inventato dal pachistano Mahbub ul Haq. Mette assieme al Pil pro capite il livelllo di istruzione e l’indice lordo di iscrizioni scolastiche. Nel 1994 un gruppo di ricercatori ha elaborato l’Indicatore di progresso reale, che distingue con pesi differenti tra spese positive (perché aumentano il benessere, come quelle per beni e servizi) e negative (come i costi di criminalità, inquinamento, incidenti stradali).
Nessuno di questi indici ha avuto un gran successo. C’è un altro indicatore, il cosiddetto ”subjective well-being”, vale a dire la percezione che gli individui hanno della propria vita e del grado di soddisfazione che provano per essa. E c’è il Wwf che misura la sostenibilità ambientale.
Anno dopo anno l’indice del Wwf conferma che, secondo i suoi criteri, in cima alla classifica c’è Cuba. Carlo Stagnaro, direttore dell’Ufficio studi del Bruno Leoni: ”Alzi la mano chi vorrebbe recepire una simile metodologia nelle scelte pubbliche”.