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 2009  settembre 19 Sabato calendario

LE RAGAZZE ISLAMICHE SOSPESE TRA DUE CULTURE


«Allora, praticamente, quest’estate ho letto un sacco di Cora­no. Così due settimane fa decido di mettermi il velo e di prendere l’auto­bus, il solito 61, quello che da San Pe­lagio arriva a Ponzano. Tieni presente che in genere quando salgo mi saluta­no tutti, anche le sedie. Bene, quella volta sembravo invisibile. Eppure la voce e la manina che agitavo per fare ciao era la solita, la mia. Quando mi sono seduta la signora accanto a me, che conosco bene, si è alzata ed è ri­masta in piedi. Cosa puoi dirgli? Poa­reti , sono fatti così».

Tahra Essiya ride anche con gli oc­chi, la sua allegria è contagiosa. Con la carica che si ritrova venderebbe fri­goriferi al Polo Nord, figurarsi i vec­chi libri di quinta, esposti in precario equilibrio sui gradini del Duca degli Abruzzi, venerabile istituzione scola­stica trevigiana. Magari senza voler­lo, ma rappresenta una avanguardia. Un prototipo. «G2», li hanno battezza­ti, seconda generazione. Un milione di ragazzi e ragazze, queste le stime della Fondazione Agnelli, ogni anno centomila di più. Sospesi tra due mondi e due culture, ne generano una completamente nuova, o almeno vorrebbero. I suoi genitori sono arri­vati da Skhirat, Marocco, che aveva tre anni. Adesso che ne ha 19 e cam­bia più cellulari di Paris Hilton, paro­le sue, si è messa a studiare l’arabo perché sente che l’italiano e il dialetto veneto non bastano più. Racconta di aver dato il suo cuore a Laura Pausini, quando nell’iPod parte la strofa «i miei occhi sono isole dove non viaggi mai» si commuove sempre. Ma an­che Mondo Marcio non è male e i vec­chi Articolo 31 la facevano tanto ride­re. Il papà è operaio alla Pagnossin, dalla settimana scorsa l’hanno messo in mobilità. La mamma fa le pulizie in giro per la provincia. Quest’anno Tarah si iscrive all’università, va di fretta perché deve studiare, il test per l’ammissione alla facoltà di Servizi so­ciali è andato male, c’è da preparare l’esame di ripescaggio. «E ci puoi scommettere un milione che lo pas­so ». Lo dice mettendo su una espres­sione da ispettore Callaghan, sembra un broncio ma poi arriva un’altra risa­ta. stata incerta fino all’ultimo, per­ché il suo sogno era fare la poliziotta, oppure andare all’Accademia milita­re.

«Serietà, sicurezza e giustizia. Io credo in questi valori». L’aspirante poliziotta risulta indige­sta allo sceriffo, quel Giancarlo Genti­lini ex sindaco e noto autore di battu­te simpaticissime, come quella sugli immigrati-leprotti da impallinare al­l’apertura della caccia. Assieme alla sua amica Meryem Fourdaus, 21 an­ni, studentessa di Economia a Padova e commessa in un negozio del centro, padre operaio cassintegrato, madre addetta alle pulizie in una casa di cu­ra, ha creato il movimento «Seconda generazione». Nel 2008 hanno orga­nizzato la preghiera segreta in un par­cheggio della periferia, spiazzando le autorità cittadine. Quest’anno lo han­no rifatto, affittando da un privato una stanza nell’ex Coop di via delle Puglie. L’ingresso è quasi sempre ad­dobbato di bandiere italiane.

La ribellione di Tahra e Meryem non ha motivi religiosi. « un urlo ri­volto alla città e ai nostri padri» dico­no. Non sopportano il divieto di mo­schea e la rassegnazione dei loro vec­chi nell’accettarlo. «Noi siamo italia­ne, ma solo fino a quando comincia­mo a parlare. Dopo, torniamo a esse­re quelle là, emarginate. Cittadini di serie B. Dal punto di vista dei diritti veniamo percepite come fossimo ap­pena sbarcate a Lampedusa». Vittorio Filippi, trevigiano, docente di sociolo­gia a Ca’ Foscari, ha studiato la rabbia della seconda generazione. La sua cit­tà, assieme a Vicenza, anche in que­sto è il laboratorio di un Veneto già laboratorio di suo con i 70.466 alunni stranieri nelle scuole, 26.074 dei quali nati in Italia. «A quelle ragazze viene negata una diversa identità alla quale sentono di avere diritto. Così finisco­no per cercarne un’altra nei loro valo­ri, riscoprono la religione e la cultura di provenienza nella quale finiscono per trovare un fattore di ancoraggio. La loro battaglia per la moschea ’se­greta’ si spiega anche così».

Mentre si dirige al vecchio super­mercato, Tahra sa che oggi si parla di padri e figlie. Di generazioni troppo di­verse e di una ragazza della sua stessa età, Sanaa, alla quale non è stato con­cesso neppure il tempo per ribellarsi. «Avrò letto 60 mila articoli sulla sto­ria di Pordenone. Ci dev’essere altro, un motivo più grande. E comunque: solo Allah dà la vita e la toglie. Solo lui. Sta scritto nel Corano». Lei non ha problemi con i genitori e neppure le sue sette cugine. Parlano tutte con «Francesco», soprannome del nonno camionista, che a 57 anni è il patriarca della famiglia Essiya. Vivono tutti in una casa del quartiere San Pelagio, a bassa densità di immigrati. Quando Tahra ha raccontato al padre la faccen­da del velo e dell’autobus, lui ha rispo­sto con una sola parola: «Toglitelo».

Ma il copione del giovane che se­gue il modello occidentale scontran­dosi con la famiglia di origine è di at­tualità anche a Treviso. Due anni fa, una ragazza di 17 anni denunciò il pa­dre che l’aveva portata in Marocco per un matrimonio combinato. E tante storie simili non riescono a valicare la mura di casa. «Conosco due genitori molto fedeli alla tradizione, ma con mentalità aperta. Uno dei loro figli fre­quentava la cosiddetta banda della bandana. Hanno indossato i costumi tipici marocchini e sono andati al McDonald’s dove i ragazzi si davano appuntamento. Il loro ragazzo non è più tornato lì per vergogna». Abdal­lah Khezraij, mediatore culturale, è il titolare di Hilal, il circolo di viale Mon­fenera diventato punto d’incontro per tutte le etnie, italiani compresi, a col­pi di buona cucina. «La G2, come la chiamate voi, è minata alla base da questo conflitto generazionale. Due vi­sioni diverse e vale anche per me. Mio figlio ha 10 anni e mi diverte vederlo fare mosse di breakdance. Ma se di­ventasse un fanatico di queste cose, non so come la prenderei».

All’ora della preghiera, la moschea segreta nel supermercato è piena. Da una porta si intravedono i tappeti, una pila di copie del Corano appoggia­te su uno scaffale bianco. Molti anzia­ni, cinque donne con il velo. Il sorriso di Tahra si spegne. «Quella ragazza, Sanaa, che adesso piangete come fos­se una di voi: era davvero italiana, ma non aveva la cittadinanza. Uguale, ma senza passaporto. Come me, che so­no qui da 16 anni. La doppia identità culturale, che a me sembra una ric­chezza, viene giudicata un’insidia. E allora molti della seconda generazio­ne, sentendosi rifiutati, si riavvicina­no alle loro origini, alla loro religio­ne ». Saluta con un gesto della mano ed entra nella stanza delle preghiere. «Ciao, italiano vero». A pensarci be­ne, la storiella iniziale, quella sul Cora­no e sul velo, non fa più così ridere.