Alberto Negri, Il Sole-24 Ore 18/9/2009;, 18 settembre 2009
LA SAGGEZZA DEI PAR E GLI STRATEGHI DA CAFF
L’Afghanistan rischia di diventare, in Italia come negli Stati Uniti, una guerra sempre più sanguinosa e impopolare. Non era così all’inizio, dopo l’11 settembre 2001,quando i giornali scrissero in prima pagina: «Siamo tutti americani». E non ci fu un’opposizione significativa neppure nell’agosto del 2003, con l’inizio della missione NatoIsaf, sotto l’egida dell’Onu. Con i riflettori allora puntati sull’Iraq, l’Afghanistan era di nuovo entrato in un cono d’ombra. Fino al ritorno in grande stile della guerriglia, sul finire dell’amministrazione Bush, quasi tutti si erano già dimenticati perché eravamo andati in Afghanistan e perché ci restavamo. Questa disattenzione non deve stupire: nel 2008 soltanto il 6% delle notizie sui principali canali televisivi nazionali trattava di crisi internazionali. Ma quando ci si scorda il motivo di un conflitto vuol dire che la guerra è già mezza persa.
Da ieri, dopo il tragico agguato ai parà della Folgore sul viale dei kamikaze a Kabul, l’Italia ha riscoperto non soltanto l’Afghanistan ma di essere un paese che pullula di esperti che parlano con grande acume di "exit strategy", cioè di come fare rapidamente le valigie e togliersi dagli impacci. Sono spesso le stesse persone che ci spiegavano, un tempo, perché «dovevamo» andare a Kabul, anche se non ci avevano mai messo piede. Ma questa è l’abilità della politica: inventarsi prima "i soldati di pace", per nascondere i rischi reali, salvo poi pentirsi e rivelare, ipocritamente, che "siamo in guerra".
Tutto questo rende ancora più doloroso il sacrificio di quei soldati in missione all’estero che forse rappresentano una patria più dignitosa, poco considerata nei sondaggi d’opinione.All’alba,dopo avere vegliato per una notte la salma del caporale Alessandro Di Lisio, ucciso nel luglio scorso a Farah, i suoi compagni della Folgore si radunarono nel piazzale della caserma di Herat: a uno a uno, senza ubbidire ai comandi di nessun ufficiale di alto grado, imbracciarono il mitra schierandosi lungo tutto il perimetro del campo in assetto di guerra. Nel più completo silenzio questi uomini si offrivano ancora una volta al sacrificio, alla solidarietà di corpo, in nome del compagno ucciso. E sarà così anche oggi per i caduti di Kabul.
Questa Italia merita una ritirata strategica più meditata. In primo luogo perché non sarà una decisione che si prenderà a Roma ma nell’ambito della Nato e con i comandi americani. Senza farsi troppe illusioni: gli Stati Uniti hanno rimosso il generale David McKiernan, che era pure coman-dante Isaf, senza neppure consultare l’Alleanza, limitandosi a un laconico comunicato per designare il sostituto, Stanley McChrystal. Ma il motivo principale è che prima di ritirarsi bisogna capire che cosa si lascia indietro. A meno che non si voglia ripercorrere il cammino dell’Armata Rossa,che nell’89lasciò il campo aperto alla guerra tra le fazioni dei mujaheddin sfociata nel ’95 nell’ascesa al potere dei talebani. Oppure che venga replicata, con effetti ben peggiori, la missione in Somalia negli anni 90: un fiasco che la comunità internazionale, e non solo l’Occidente, sta pagando caro ancora oggi. La nostra presenza si basa su una risoluzione delle Nazioni Unite per evitare che l’Afghanistan torni a essere uno "stato fallito" come era prima del 2001, quando era considerato un rifugio del terrorismo internazionale. Inoltre la questione afghana è un nodo quasi inestricabile con quella del Pakistan e richiede il coinvolgimento di vari attori politici in Medio Oriente e in Asia centrale. Questa area grigia, il cuore del nuovo arco della crisi mondiale, denominata "Af-Pak" ha un enorme potenziale di destabilizzazione: dall’integralismo islamico all’atomica di Islamabad, dai conflitti etnici all’eterna crisi del Kashmir tra India e Pakistan.
La strategia di uscita è tutta qui: intensificare l’azione politica e diplomatica per ridurre i costi umani ed economici della presenza militare. Soltanto in questo modo ci potrà essere una ritirata che non somigli a un tracollo, a un Vietnam che peserà non soltanto sulle spalle degli americani.
Certo ci vorrà un bel coraggio politico, perché con un governo Karzai così debole e delegittimato dai brogli e dalle irregolarità del processo elettorale sarà inevitabile non soltanto aprire all’opposizione sconfitta ma soprattutto ai talebani. E forse bisognerà anche superare il tabù di un negoziato con il diavolo, cioè con i rappresentanti del Mullah Omar, sfuggito in moto otto anni fa alle truppe americane e che oggi pare risieda felicemente in Pakistan, tra Quetta e il Balucistan, sorvegliato, ma forse sarebbe meglio dire assistito, dalle stesse autorità pakistane.