Varie Stampa 18/9/2009, 18 settembre 2009
La presenza militare italiana all’estero è da anni sottoposta al solito andazzo. Quando tutto va bene, ognuno (destra e sinistra) si fregia della «ritrovata capacità di avere un ruolo internazionale»
La presenza militare italiana all’estero è da anni sottoposta al solito andazzo. Quando tutto va bene, ognuno (destra e sinistra) si fregia della «ritrovata capacità di avere un ruolo internazionale». Quando il prezzo di sangue dell’impegno ci viene presentato, tutti cercano invece di sfuggire dalle responsabilità. Iraq, Libano, Afghanistan: in questo rosario di Paesi siamo presenti ormai da tanti anni da poter equamente parlare delle responsabilità di centrodestra e centrosinistra. Prodi [sulla guerra] ha dovuto far fronte al pacifismo dentro la sua coalizione, ma anche il centrodestra sa di avere una base elettorale per cui tasse e economia valgono più dell’impegno militare. Siamo dunque abituati, dopo ogni incidente mortale, al «dibattito sulla guerra». Un dibattito francamente stucchevole, proprio perché si è sempre saputo che serviva solo a incanalare le emozioni del momento. Nella situazione presente, tuttavia, con Obama presidente, l’Italia dovrà stare molto più attenta. Per un’unica ragione. George Bush era il Presidente della guerra - americana, identitaria, necessaria, preventiva. Il conflitto, dopo l’11 settembre, è diventato parte integrante della teoria politica dei repubblicani: Bush l’avrebbe fatta - ed è successo - comunque, su larga scala, e anche senza alleati. Obama è invece un Presidente le cui radici intellettuali sono quelle del rifiuto del conflitto e della fine della guerra come strumento di dominio Usa. Ma in concreto è l’uomo che per la sicurezza ha dovuto impegnarsi in una guerra, per altro molto tesa e incerta come quella in Afghanistan, dai contorni meno definiti e meno rassicuranti di quanto sia stata quella in Iraq. L’impegno di questo Presidente democratico costituisce dunque in sé una potente contraddizione, la differenza fra realtà e promesse della sua politica: l’Afghanistan è per Obama un vero e proprio tallone di Achille. Questo punto debole per ora non duole (o almeno ancora non tanto) in Usa perché ci sono cose che fanno ancora più male dentro il Paese. Ma la contraddizione è lì, e Obama non può permettersi di farla scoppiare. Tanto meno da parte degli alleati [...] (LUCIA ANNUZIATA) Il singolo evento che ha causato il maggior numero di vittime tra i nostri soldati in Afghanistan non è avvenuto durante una delle tante operazioni «scova e distruggi» in cui da tempo sono validamente impegnati, ma a Kabul durante un servizio di scorta. Che cosa impariamo? Che in una guerra asimmetrica le missioni a minor contenuto di «aggressività», condotte in zone operative più «tranquille», possono comportare rischi maggiori di quelle di combattimento. Per cui bisogna smettere di immaginare che un impiego più «discreto» dei nostri militari possa esporli a minori perdite. Non c’è dubbio che il rafforzamento e il migliore impiego del contingente militare è solo uno dei vettori di qualunque tentativo di stabilizzazione dell’Afghanistan. Il secondo è la ricostruzione del tessuto politico e istituzionale del Paese, e il terzo è la trasformazione dell’impatto della regione circostante sull’Afghanistan da negativo in positivo: a partire dal Pakistan, che - da retroterra e santuario dei Taleban - deve diventare la seconda ganascia di una tenaglia volta a stritolarli. evidente che proprio sul secondo vettore la situazione sia tutt’altro che incoraggiante. Le elezioni presidenziali rischiano di diventare un boomerang fatale, non solo provocando l’ulteriore disaffezione degli afghani verso il regime, ma soprattutto offrendo ai Taleban un’insperata occasione supplementare per far fallire quel test elettorale che avevano cercato di sabotare in tutti i modi. Solo sul fronte regionale iniziamo a intravedere qualche timido segnale di miglioramento e i Taleban sembrano incontrare finalmente qualche problema in Pakistan. Ma occorre ribadire che una presenza militare internazionale incisiva e determinata rimane la condizione necessaria perché la cosiddetta soluzione politica, che tutti invocano e nessuno riesce a trovare, non finisca con il diventare la pietra filosofale del conflitto afghano. Mandare più truppe sta riuscendo difficile persino agli Usa di Obama, improbabile che l’Italia possa farlo. Possiamo però auspicare che il governo mantenga l’impegno di non ritirare i soldati. Il quadro politico lascia sperare che la gravità del momento prevalga sullo spirito di fazione. significativo che i meno allineati rispetto a questa posizione siano la Lega e l’Italia dei Valori. In particolare il partito di Di Pietro, libero da vincoli di governo, appare solo intento a fare bottino nelle prossime Regionali tra quella parte dell’elettorato meno sensibile e più diffidente rispetto alle missioni militari, traendo il massimo profitto dell’assenza di concorrenza (vista la scomparsa dal Parlamento della sinistra radicale). Entrambi i partiti sono però accomunati dall’inclinazione a ricondurre la dimensione internazionale sempre e comunque alla più miope logica domestica: si tratti di fare inserzioni a pagamento contro il governo sull’Herald Tribune (l’Idv) o di cavalcare il timore per l’immigrazione clandestina (la Lega).