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 2009  settembre 17 Giovedì calendario

LA NAZIONALE SCIOPERATA


Aprile 2009, e sembra un secolo fa: la nazionale boliviana massacra l’Argentina di Maradona nel catino rarefatto dell’Hernando Siles di La Paz, 3600 metri di altitudine e un’aria impossibile. 6-1, la pagina più triste nella storia del calcio albiceleste. La più gloriosa, epica per la Verde, la nazionale andina allenata dal leggendario Erwin Sanchez. Le qualificazioni mondiali si mettevano benino per la Bolivia. Poi, il buio.
La sconfitta della settimana passata contro l’Ecuador ha invece tagliato fuori definitivamente la Verde da Sudafrica 2010. Solo 12 punti in 16 partite. Tutti in casa. Tutti strappati a viva forza dai polmoni degli avversari. Pochi, proprio pochi però per ripetere il miracolo di Usa ’94, il primo e unico mondiale con il nome e la bandiera della Bolivia. Si resta a casa. Mentre in Ecuador si balla di felicità. Mentre in Paraguay il presidente Lugo decreta un giorno di festa nazionale per la storica vittoria sull’Argentina e il quarto mondiale consecutivo raggiunto.
A La Paz no, tutto fermo, tutto infinitamente triste. L’Assocalciatori boliviana, allora, storia di ieri, prende in mano la situazione: sciopero. Sciopero dalla nazionale. Nessun giocatore boliviano risponderà alla convocazione del ct Sanchez per le prossime due partite, le ultime dell’infinito girone di qualificazione sudamericano, contro Brasile e Perù. I giocatori lamentano «l’estrema incertezza in cui versa il calcio boliviano» e chiedono, soprattutto, di cancellare le troppe sigle che spezzettano fino all’estremo il minuscolo fútbol giocato sulle cime delle Ande. Il calcio professionistico boliviano è diviso tra federazione, lega e associazioni locali, ognuna dotata di poteri, soldi e notevoli margini di indipendenza reciproca. I giocatori, gli arbitri, gli allenatori boliviani, invece, vorrebbero contare di più. Meno tacchini, insomma, e più soldi a chi il calcio lo fa, lo dirige, lo insegna. Meno burocrazia, più campo.
La jacquerie giunge, non inattesa, esattamente una settimana dopo l’idea del presidente Evo Morales, che dopo l’ennesimo disastro della nazionale, aveva avviato uno studio sulle possibilità di nazionalizzare il pallone di lassù, chiudendo le frontiere e azzerando nomine e strutture. « giunto il momento di dare una sola struttura al nostro calcio». Sarà, ma quando sarà?
Un bel pasticcio assai complicato dalla situazione generale del fútbol sudamericano, in crisi nera anche in paesi notevolmente più vivaci, più esportatori di materiale umano verso l’Europa. In Argentina il campionato di Apertura è partito con grandissime difficoltà e solo con l’obbligo, per tutte le squadre, di non pescare all’estero e di contenere i costi fino al masochismo.
Morales però va avanti, nel suo stile, folklore e realtà, lana d’alpaca e acutezza. Indimenticabile e fantasiosa, due anni fa, la battaglia per ottenere dalla Fifa l’innalzamento oltre i 3000 metri di altitudine del massimo consentito per la disputa di una partita di calcio. La Paz, a 3600 metri, è un fortino difficilmente espugnabile. Blatter disse di nì, va bene fino alla conclusione del girone di qualificazione a Sudafrica 2010, poi si cambia e si scende tutti sotto i 3000. Niente più La Paz, dunque, e probabilmente niente più Bolivia, almeno ad alti livelli. Si finirà forse a Sucre, forse a Cochabamba, qualche centimetro sotto i 3000.
Morales organizzò, per dimostrare che il calcio anche in altura si può fare, un’amichevole ai 5000 metri delle Ande, tra due squadre che però, già al 15’ avevano finito polmoni, benzina e voglia di sgambettare tra le nuvole e le rocce, tra i lama e le aquile. Maradona appoggiò Morales nella sua battaglia. Era il 2007. Pochi mesi dopo Diego sarà nominato ct dell’Argentina. Due anni dopo prenderà sei legnate a La Paz, rimpiangendo, forse, il troppo amore per la questione boliviana.
Qualcosa, dunque, potrebbe cambiare, difficilmente però prima di ottobre. Brasile e Perù, le due avversarie della Verde, sono entrambe tranquille, l’una perché già qualificata, l’altra perché ultima e già eliminata nonostante le ambizioni. Non condizionerà, l’assenza degli andini, gli equilibri di un girone incertissimo che alla fine potrebbe tenere fuori dai giochi la divina Argentina del Diez, clamorosamente in bilico e attesa, in Uruguay all’ultima giornata, dal classico dentro o fuori nello stadio della prima finale mondiale della storia, il Centenario di Montevideo, centomila anime contro undici argentini. Altra storia, altri colori, odori, splendori e miserie del calcio sudamericano, il calcio più infuocato, più dannato, più bello del mondo.