Stefano Ciavatta e Alberto Alfredo Tristano, Il Riformista 17/9/2009, 17 settembre 2009
Chi fu Gian Carlo Fusco, nato nel 1915, morto nel 1984, ligure e anche viareggino, anche marsigliese (a suo dire) e cresciuto, vissuto, trasformato mille volte? Una ponderosa opera critica, dedicata agli autori italiani, non lo nomina nemmeno
Chi fu Gian Carlo Fusco, nato nel 1915, morto nel 1984, ligure e anche viareggino, anche marsigliese (a suo dire) e cresciuto, vissuto, trasformato mille volte? Una ponderosa opera critica, dedicata agli autori italiani, non lo nomina nemmeno. Le piccole enciclopedie non lo annoverano. Fusco rischia di venire ricordato solo oralmente dagli amici ormai attempati». Sono parole di Giovanni Arpino, nel 1987 al tempo della ristampa Einaudi di Duri a Marsiglia, uno dei libri più riusciti di un «novellatore straordinario e intrattenitore da caffè notturno». Da allora le cose in parte sono cambiate, sono passati esattamente 25 anni dalla morte di Fusco ma la domanda rimane: «Perché non viene citato nei manuali? Se lo chiedeva anche Oreste Del Buono. Fusco era un giornalista in prestito alla letteratura, malvisto dai compilatori delle nostre lettere, scriveva su Playmen e altre riviste che non erano accettate», racconta Luigi Bernardi, curatore nel 2005 di Stile Libero Noir che fece riemergere dal catalogo Einaudi il titolo perduto, «ma non c’entrava niente con l’ondata giallistica e noir. Di sicuro ci sono più libri suoi oggi che quando era in vita. La storia prima o poi gli darà ragione. Era come Sergio Leone, considerato un mestierante». Chi di mestiere si occupa di letteratura, ammette la defaillance, come Giulio Ferroni, autore della Storia della Letteratura Italiana (Einaudi): «Purtroppo gli autori sono talmente tanti che i critici sono immersi nel mare della quantità, che è anche un male. Può certamente sfuggire anche un capolavoro assoluto. Se uno dovesse tenere a mente tutto il mare magnum affogherebbe. Ma non si possono neanche accusare i critici. A volte è anche il caso che fa riemergere il profilo dell’autore». Anche nella dettagliatissima Storia della letteratura italiana del 900 di Giacinto Spagnoletti (Newton Compton) non se ne trova traccia. Neanche un rigo. Per un critico militante come Walter Pedullà «è una cosa possibile perché sugli scrittori sul versante del comico ha "pesato" molto quella leggerezza che diventa stile, e che si voleva invece frivola, e quindi espulsa dal territorio ufficiale». E Fusco? «Non ha avuto un angolo legittimo dove poter indicare la presenza della sua intelligenza brillante e sulfurea». Neppure lei però lo ha inserito nella sua Narrativa italiana contemporanea (Newton): «Confesso che ho conosciuto poco i giornali e le riviste su cui collaborava. Il reato è maggiore quindi, non è esclusione ma non averlo preso in considerazione nel momento in cui il fenomeno era caldo, ma nella distanza, lo riconosco, è come se mi fosse passato di mano». Chi invece ha scommesso su Fusco è la casa editrice Sellerio, ristampando tutto, da A Roma con Bubù, da molti indicato come il suo capolavoro, a Le rose del ventennio, La Legione Straniera e gli Indesiderabili. Per il curatore Beppe Benvenuto «la storia di Fusco è come Cassano che non va in nazionale. Ma perfino Carducci ce l’aveva con i manzoniani, è una vecchia storia... Stravagante, eccessivo, dalla metà degli anni 60 non era più presentabile per il giornalismo italiano. Bocca e Brera al Giorno gli riservavano un malcelato fastidio, con una punta di invidia perché lui era la star del giornale e loro aspiravano ad esserlo. Anche le sue frequentazioni facevano storcere il naso, come gli ex fascisti. Ma era curioso, e soprattutto un uomo senza passato, nel senso che non faceva parte delle varie oligarchie letterarie. Con gli anni le persone che lo avevano imborghesito come Camilla Cederna lo persero per strada. Raccontava un mondo che negli anni 60 non interessava, un mondo di operetta, ma in fin dei conti non così esecrabile. E poi era disincantato, ironico, raffinato e semplice. Inclassificabile, come Bianciardi che infatti visse la stessa punta d’astio dei grandi giornalisti». Impossibile separare i libri dalla vita di Fusco. Non perché fosse uno scrittore in carriera, anzi, tutt’altro. Attore cinematografico, boxeur, ballerino, soldato e prigioniero, militante Pci, gran bevitore e donnaiolo, mondano e frequentemente spiantato, reporter soprattutto di se stesso, amava appunto raccontare e inventare insieme. Oltre che nei libri, le sue identità vere o false che fossero, finirono tutte dentro i suoi articoli per il Mondo, L’Europeo, il Giorno, Cronache, Kent e Playmen. Il giornalista Dario Biagi, autore de L’incantatore (Avagliano), biografia di Fusco rifiutata da più di un grande editore, spiega così l’esclusione di un "grande irregolare": «Non ha cercato premi, né antologie, scriveva su commissione, non amava faticare, non rientrava negli schemi del letterato italiano. Era un giornalista prestato alla letteratura, quindi guardato male dagli stessi colleghi. Anche se era un grande stilista, come Parise e Comisso, Fusco non ha prodotto il "Romanzo" classico, anche Duri a Marsiglia è un divertissement. Forse oggi con gli editor più giovani può ritrovare spazio. Ma quanto durerà?». Mentre entro l’anno è prevista l’uscita del film L’incantatore di serpenti. La vita senza freno di Gian Carlo Fusco, diretto da Salvatore Allocca (prodotto dalla Vega’s Project), di sicuro sul terreno degli estimatori storici Fusco gode di ottima salute. Per Franco Cordelli «benchè sia divenuto chiaro con tre decenni di ritardo, Fusco è un grande scrittore italiano». E le storie letterarie? «Forse i motivi sono due: il primo è tecnico perché non esistevano i libri di Fusco, erano pubblicati da editori strani, nessun critico di allora li avrebbe presi in mano. Poi non aveva un progetto di sé come scrittore, non aveva scelto di esserlo. Ma c’è un motivo secondo me più profondo. Ieri la distinzione tradizionale tra cultura alta e popolare era chiara, infatti Fusco non fu notato neanche per sbaglio. Oggi è tema del dibattito, anzi ci si chiede se sia lecito porsi questa domanda: perché limitarsi a considerare la Mazzantini una scrittrice popolare? La cosa comica è che Fusco nasce come cultura pop e poi diventa cultura tout court, come Delfini e Bianciardi. Oggi la Mazzantini finge di essere cultura popolare mentre pensa di essere alta cultura, in realtà è peggio, trivial literature, è la falsa coscienza, il contrario esatto di Fusco». Stefano Ciavatta ********* Viareggio, estate bigia, anche se agosto ha tenuto. Città ancora addolorata per il disastro ferroviario del giugno scorso. Viareggio oggi, così diversa dalla leggera regina tirrenica cui ci riporta la lettura del delizioso Viaggio in Versilia. L’estate del boom, volume edito da Mursia che raccoglie le puntate di un’inchiesta che Gian Carlo Fusco pubblica sul Giorno nell’estate del 1960. quella l’estate più felice della Repubblica? Forse il luogo comune ci porterebbe a pensarlo. Pensando al Pil moltiplicato. Al benessere sempre più diffuso. Alla Dolce Vita di Federico Fellini nei cinema. O alla Roma dell’Olimpiade «più bella di sempre», secondo alcuni. E magari dimenticando Genova e Reggio Emilia, morti e feriti in piazza per dire no al governo del dc Fernando Tambroni (che in quel luglio si dimise) sostenuto anche dal Msi. E dunque andiamo indietro di quasi mezzo secolo con le pagine del calendario. Posizionandoci in qualche punto della Versilia di allora: «in uno dei tanti formicolanti purgatori dell’estate italiana». Magari ai tavolini del Caffè Fappani di Viareggio, dove lo strabordante Fusco (spezzino di nascita, viareggino d’adozione) è l’incontestabile re: «Ci annientava con la sua meravigliosa capacità di raccontare, quando parlava era grande come Tolstoj scrittore», ricorda Manlio Cancogni che gli fu amico e ascoltatore. Scrive Fusco nell’inchiesta: «Quest’anno in Versilia, come altrove, ha fatto il suo ingresso nella "beach-society" la generazione della bomba atomica», con le ragazze «venute alla luce mentre si ballava il boogie-woogie», che «hanno dei boy-friend tra i diciassette e i vent’anni e li tiranneggiano un po’» perché «certe pellicole "made in Hollywood" hanno insegnato alle nostre adolescenti l’arte del matriarcato precoce». Fusco registra «in questi virgulti abbronzati della media e grossa borghesia il tenace spirito di clan», mentre discutono «non già di gite e di piccole feste», ma «di carriere, di automobili, di arredamenti per le future case, di ipotetici investimenti patrimoniali». E si muovono nei locali diventati leggendari. La Bussola e il Bussolotto («piccolo locale del grande locale»). La Capannina «che all’ora dell’aperitivo si riempie di proci: bei giovanotti che si snodano mollemente come bisce», (oppure «ruzzano pigramente come giovani leoni in un racconto africano di Hemingway»): è il locale dell’«edera bivalente» perché il rampicante sulla facciata è tagliato in modo da tracciare la corona sabauda («"I monarchici vedono la corona, i repubblicani l’edera. Io mi accontento dell’incasso" dice modestamente il proprietario Franceschi»). Sui palcoscenici salgono Chet Baker con la sua tromba d’argento, idolo dei «giovani freddisti», gli appassionati del jazz freddo. Romano Mussolini al pianoforte, a cui il barone antifascista Arrigo Baseli dice: «Ben venga: basta che non tocchi quel certo tasto». O Bruno Quirinetta, «inventore della formula confidential», «che ebbe il torto di essere il più bravo di tutti con sei o sette anni di anticipo» e ormai fa «il capo orchestra compassato e discreto, beve più aranciate che whisky e non stuzzica più i mariti permalosi». In quell’estate del ’60 «i nomi delle ragazze rattrappiscono il più possibile: Cucci Veronesi, Mavi Agudio, Malu Ghiringhelli. Giovanna può diventare semplicemente Na, Roberta Ta, Cesira Ce». «Il foglio da mille si chiama "garibaldino"» o «"birillo" nelle Cinque Terre». Del tapino che non riesce a conquistare una ragazza «si dice che "ha fatto Basile" con evidente riferimento al presidente fantasma del congresso missino fallito nei giorni scorsi a Genova. "Ieri sera alla Bussola c’era un Katanga che non ti dico!" significa che il locale era pieno di gente. Il "quadripartito" è semplicemente la canasta». Fusco in quell’estate fornisce una delle sue prove maiuscole sul giornale di Baldacci (e Mattei), dove è titolare d’una celebre Colonna. «Un hors catégorie, non catalogabile» lo definì Giovanni Arpino, come ricorda Vittorio Emiliani nel bel ritratto dedicato a Fusco nel libro Gli anni del Giorno. Giornalista senza mai tesserino in tasca. Scrittore prolifico. Attore nei Capricci di Carmelo Bene e col viareggino Mario Monicelli nei panni di Furas, golpista sardo nel mitico Vogliamo i colonnelli. La grande firma del Giorno vive soprattutto la notte. Ordina casse intere di grappa con la carta intestata (finta) di un bar meneghino. E quando lascia il quotidiano di via Settala cambia in banconote l’assegno della liquidazione per distribuirle alle ragazze del Sir Anthony, il night di Lambrate che è per lui come una casa. Fusco, semplicemente Fusco: e sai cosa leggi. Alberto Alfredo Tristano