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 2009  settembre 16 Mercoledì calendario

La capitale somala devastata dai guerriglieri ’Vado al lavoro e non so se tornerò a casa” Seduto nel suo ufficio-magazzino rivestito di pannelli di legno nel pieno centro di Mogadiscio, a pochi chilometri dalla linea del fronte tra le forze governative somale e i ribelli islamici dello Shabaab, Mohamed Farah Siad ripercorre la sua vita fatta di solitudine, pericoli e affari in una città devastata da 18 anni di guerra civile: «Potrei vendere tutto e andarmene via, ma non ho intenzione di andare all’estero per fare il rifugiato

La capitale somala devastata dai guerriglieri ’Vado al lavoro e non so se tornerò a casa” Seduto nel suo ufficio-magazzino rivestito di pannelli di legno nel pieno centro di Mogadiscio, a pochi chilometri dalla linea del fronte tra le forze governative somale e i ribelli islamici dello Shabaab, Mohamed Farah Siad ripercorre la sua vita fatta di solitudine, pericoli e affari in una città devastata da 18 anni di guerra civile: «Potrei vendere tutto e andarmene via, ma non ho intenzione di andare all’estero per fare il rifugiato. Meglio un giorno da leone a casa che cento da pecora altrove». Sessantacinque anni, quasi la metà dei quali trascorsi in Italia, Siad è titolare di una delle principali imprese idrauliche che servono la Somalia centrale. In un Paese dove non esiste un’autorità in grado di controllare il territorio e dove la capitale è occupata per due terzi dalle forze ribelli, la sua capacità di continuare l’attività è ammirevole. «Negli ultimi sei mesi, Mogadiscio è diventata un fantasma. La guerra ha svuotato la città e il lavoro è calato molto», spiega camminando tra i corridoi del suo magazzino, dove vecchie casseforti e calcolatori di trent’anni fa ingombrano gli scaffali ricoperti da uno spesso strato di polvere. Siad è uno degli ultimi esponenti della vecchia generazione di somali educati nelle scuole italiane e che mantengono ancora oggi un rapporto privilegiato con la ex madrepatria coloniale. Tutto il materiale che importa, dai tubi ai sanitari, dalle pompe ai cavi elettrici, proviene dall’Italia, dove Siad torna almeno due volte l’anno. I suoi operai specializzati parlano italiano e sono stati formati nel periodo d’oro della Somalia, quando Mogadiscio era in pace e i rapporti con Roma erano più che floridi. Fino a pochi anni fa Siad guadagnava più di 300.000 dollari l’anno, una fortuna in un Paese dove la maggioranza della popolazione fatica a trovare un lavoro. Oggi, a causa della guerra, gli introiti sono scesi di sei volte, complici i costi dei trasporti e la corruzione endemica del governo locale, che rende la vita dura a chiunque voglia fare affari qui. «Far arrivare un container da Dubai aumenta i costi del trenta per cento, e rende i miei prodotti non competitivi rispetto a quelli cinesi - si lamenta -. In più, alla dogana c’è sempre da pagare qualcuno». Senza contare le volte che un colpo di mortaio o un Rpg centrano uno dei siti, distruggendo settimane di lavoro e le vite dei suoi uomini: «I miei operai devono accettare il fatto che, ogni volta che escono in strada, possa essere l’ultima». Nell’amministrazione dell’azienda, dove una volta lavoravano otto persone, è rimasto solo un segretario. Gli altri sono morti o scappati all’estero. Ma nonostante sia in bilico tra le acque agitate della guerra civile, Siad non è disposto a lasciare la nave. Per non abbandonare la sua terra e il suo lavoro, è costretto a vivere sei mesi l’anno lontano dalla moglie e dai sette figli, trasferitisi negli Stati Uniti. Siad può contare solo su un ristretto circolo di amici, da invitare a casa quando i combattimenti cessano e le condizioni di sicurezza lo permettono. A Mogadiscio non ci sono bar né ristoranti, e uscire dopo le sei di sera significa andare incontro alla morte. «Ho paura come tutti, è normale - ammette senza problemi - ma la situazione del nostro Paese ormai è tale che non ci spaventiamo di certo se sentiamo una bomba esplodere a un chilometro di distanza». Neanche il richiamo della sua terra adottiva, quella Toscana dove ha mosso i suoi primi passi lavorativi, basta a staccarlo da Mogadiscio. I soldi che ha guadagnato finora non gli permetterebbero un’esistenza agiata in Italia, e Siad preferisce vivere da ricco tra le bombe che libero in un Paese del quale non ha più stima. «L’Italia è venuta meno alle sue responsabilità nei confronti della Somalia - spiega, puntando un dito accusatore al di là della scrivania -. Dov’è finito l’investimento sulle risorse umane in questo Paese? Tutte le scuole italiane sono state scalzate da quelle arabe, e la cultura italiana sta scomparendo». La perdita di influenza nella ex colonia è più che evidente nella spaccatura tra le vecchie e le nuove generazioni: le prime parlano italiano, le seconde inglese. E il fatto che, negli ultimi dieci anni, l’Italia abbia abbandonato la Somalia al suo destino, è una ferita che tantissimi locali si porteranno per sempre nel cuore. ** Commento di Alessandra Comazzi Ho partecipato a Miss Italia. Sono arrivata tra le concorrenti nella sala del «trucco e parrucco», e mi sono vista circondata dalle aliene. Creature alte oltre il metro e 80 con i micidiali tacchi 12. Nell’insieme, natura e artificio, uno stormo di esili gigantesse. Non farebbero però fortuna negli studios hollywoodiani dei telefilm, dove imperversano i più gestibili formati mignon. Il palazzetto dello sport di Salsomaggiore, detto Palacotonella, è assaltato dalle ragazze, che arrivano in pullman come le squadre di calcio. Ma di base stanno a Tabiano, paese termale confinante. L’avventura delle finaliste qui in Emilia era cominciata il 24 agosto, e già c’erano state le preselezioni. Un oggettivo tour del force. Definizioni di ruoli e personaggi, inquadramento generale, qualche prova coreografica e di sfilata, molta attenzione alla posizione della gamba, la sinistra che scavalca gentilmente la destra. Meno seguita la dizione, come dimostra l’Eletta, che quando apre la bocca sembra Franco Neri con le soppressate di Soverato. La realtà supera sempre la fantasia. La macchina di Miss Italia trasuda imponenza. Un po’ meno del Festival di Sanremo, però. E con un materiale umano da trattare con cura ancora maggiore. Perché le ragazze, ancorché contemporanee e scafate, sono pur sempre giovani giovani, spesso appena maggiorenni, e gli organizzatori devono fare moltissima attenzione alla pubblica moralità. Almeno in questa fase. Solo le aspiranti veline sono più blindate. Accanto alle figlie ci sono mamme, e/o papà. Dai tempi della Magnani in «Bellissima» di Visconti, il genere si è evoluto: e qui i genitori si tengono cortesemente a debita distanza. Gratificati, nell’ultima sera, quelli delle finaliste. A distanza anche la giuria, che non alloggia a Tabiano con le miss, bensì a Salsomaggiore. Ferrea organizzazione emiliana, secondo i riti di un meccanismo antico e ben oliato. Tutto arriva, tutto parte, tutto funziona. Anche il banchetto finale, in programma nel cuore della notte, che pure si è svolto in una sala decoratissima ma piccola per la bisogna. Pazienza, al culatello non si comanda. Nel loro bell’albergo i giurati si intrattengono, si analizzano, la prendono come un lavoro. Cecchetto: «Son contento perché mia mamma è contenta di vedermi alla tele e lo dice a tutto il paese». Assisi: «I sogni al Sud valgono di più». Mariotto, che dal vivo è simpaticissimo: «Del televoto mi fido: farò bene?». Tognazzi ha con sé la moglie Simona Izzo, la Rusic è alta due metri come le miss e sta defilata. Milly Carlucci è la signora perfettina che traspare dalla tv, vuole fare ascolti, un buon programma e donnescamente corretto, nonostante di questo si tratti: mostrare ragazze spogliate. Alcune erano riserve: l’ultima sera hanno loro concesso di stare in mezzo alle altre, al buffet. Per il resto, lunga attesa. «Potevano almeno lasciarci partecipare alle prove. Non era bello star lì ad aspettare che qualcuna si facesse male». Buona vita, ragazze. Conta il lato A, conta il lato B, ma vedrete che conta anche il lato C: conoscenza, consapevolezza, capacità.