Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  settembre 15 Martedì calendario

Beethoven, la Nona si replica Ma tutto è fuorché un inno - «La Nona, ancora?». Questo mi domandava Luca, simpatico quattordicenne apprendendo che, nell’occasione della ricorrenza dell’attentato alle torri gemelle del 11/9/2001, il Parco della Musica avrebbe ospitato Lorin Maazel con l’orchestra Symphonica d’Italia nell’esecuzione della sinfonia n

Beethoven, la Nona si replica Ma tutto è fuorché un inno - «La Nona, ancora?». Questo mi domandava Luca, simpatico quattordicenne apprendendo che, nell’occasione della ricorrenza dell’attentato alle torri gemelle del 11/9/2001, il Parco della Musica avrebbe ospitato Lorin Maazel con l’orchestra Symphonica d’Italia nell’esecuzione della sinfonia n.9 in re minore op.125 di Beethoven. Domanda non priva di senso dato che solo due mesi prima questo ragazzo aveva ascoltato la stessa sinfonia diretta da Antonio Pappano alla guida dell’orchestra dell’Accademia. Due esecuzioni (entrambe non memorabili) della stessa opera nello spazio di sessanta giorni destano stupore e danno adito a qualche riflessione. Non è mia intenzione criticare l’ottimo lavoro di Maazel nella conduzione dell’orchestra Symphonica d’Italia, piuttosto deprecare l’abuso che di questa musica si è fatto nel nostro mondo sonoro ormai costellato di "jingles". La Nona è così diventata patrimonio dell’umanità, inno dell’unione europea, spot pubblicitario ed altro. Ma una sinfonia non è nulla di tutto ciò. «Una sinfonia non è soltanto una composizione nel senso comune del termine, è piuttosto una professione di fede a stadi differenti della vita di un uomo». Così Jean Sibelius (1865-1957) scriveva su questa forma musicale che stava per esalare i suoi ultimi aliti di vita. Discorso valido per se stesso in quanto cantore del senso di una solitudine eterna ma applicabile con veridicità al sinfonismo in generale almeno da Beethoven in poi. Il numero stesso delle sinfonie scritte prima dell’affacciarsi al mondo del genio di Bonn dai suoi grandi predecessori Haydn e Mozart (104 il primo e 41 il secondo), ci racconta come prima di lui il concetto espresso così efficacemente da Sibelius non avesse diritto di cittadinanza nel variegato cosmo delle forme musicali. La sinfonia era, alla stregua di un concerto o di una sonata, una forma entro la quale circoscrivere un discorso musicale e null’altro. Con Beethoven tutto cambia. Soltanto le prime due sinfonie sono riconducibili al modello di Haydn e Mozart chè già nella terza (la cui durata apparve allora mostruosa) siamo in un mondo nuovo. Questa è la ragione per cui i romantici sentirono in Beethoven il loro vero antecedente quando non lo considerarono a tutti gli effetti come uno di loro. Nove in tutto, né dopo di lui si andrà oltre. Ma l’ultima sinfonia del gran Mogol (così amava definirsi) che egli stesso volle dirigere in una prima esecuzione passata alla storia, non contiene soltanto quell’Inno alla gioia di Schiller che ne costituisce il finale. al contrario espressione di un dolore che nasce dalla tragedia ed a quella ritorna. Proprio nella Nascita della tragedia di Nietsche va ricercata la plausibile spiegazione di quella dicitura di Sinfonie Allemande che sta sulla prima pagina di questa partitura e che è andata negli anni scomparendo: «Dal fondo dionisiaco dello spirito tedesco si è levata una forza che nulla ha in comune con i fondamenti della cultura socratica, incapaci a spiegarla e giustificarla: una forza che tale cultura sente come qualcosa di spaventosamente incomprensibile e tremendamente ostile…» Altro che inno europeo. Nicht diese töne (non questi suoni) canta il basso dopo le asprezze dissonanti che precedono il dispiegarsi del tema finale. Ma quel terremoto sonoro che scuote l’animo rischia di finire nel frullatore culturale che tutto omogeneizza e rende più digeribile, come una pappina da somministrare a neonati non ancora avvezzi a mordere. Siamo tutti più buoni? No, siamo solo sdentati.