Dino Cofrancesco, Libero 15/09/2009, 15 settembre 2009
Garibaldi narratore
I due mondi del Garibaldi narratore - Il grande chimico Lavoisier, che stabilì il principio di conservazione della massa, sarebbe stato deliziato dal nostro Paese in cui da sempre nulla si distrugge. A centocinquant’anni dall’unità italiana ci sono ancora nostalgici dei Borbone, del vecchio Piemonte e persino di quello Stato della Chiesa così corrotto e male amministrato da suscitare lo sdegno dell’uomo più reazionario del suo tempo, Monaldo Leopardi, disgustato dalla corruzione degli uffici che gli avevano affidato e da spingere un cattolico liberale come Massimo d’Azeglio, genero di Manzoni, a denunciare all’opinione pubblica europea il trattamento riservato agli ebrei romani, rinchiusi nel ghetto, al calar della sera, come bestiame in un recinto. Se non fossero così lontani nel tempo avremmo club degli amici di Nerone, di Caligola e di Attila. Ovviamente nel nome del revisionismo e della necessità di farla finita con la ”retorica ufficiale” che, nel caso del Risorgimento, celebra i padri della patria e ne nasconde le malefatte. Per la verità, negli ormai lontanissimi anni Sessanta, al liceo e all’Università di quella retorica non mi sono mai accorto. Figure come Mazzini, Garibaldi, Cavour, Minghetti apparivano alla mia generazione come personaggi storici di secondo piano, se non dei protagonisti di una storia minore e provinciale. Fu lo studio della grande saggistica storiografica e politica europea - i Quinet, gli Hugo, i Mill - a farmi comprendere la statura etica e intellettuale di ”avi” verso i quali non avevo provato alcun trasporto. Non è un buon segno, per lo stato di salute morale del Paese, il fatto che siano rispuntati quelli che Antonio Gramsci - a sua volta tra i demolitori del mito - chiamava i «nipotini di padre Bresciani». Il padre gesuita, devoto di C.M. Curci fondatore della Civiltà cattolica, sulla rivista dei Gesuiti, col suo romanzo Lionello, aveva avuto la mano pesante con l’ eroe dei due Mondi. Garibaldi, aveva scritto, «macella iniquamente tanti prodi che combattono per buon diritto de’ loro legittimi signori, solleva i sudditi contro l’autorità, mette a ruba, a ferro, a fuoco le città fedeli, incrudelisce contro i pacifici e onesti cittadini, si rende il terrore e l’abominazione dei buoni». Ritrovare oggi quasi le stesse espressioni in sedicenti storici ”revisionisti” può stupire solo chi non conosce l’Italia e la straordinaria capacità dei suoi abitanti di ”non buttare mai via niente”. Alla storiografia sanfedista, però, non si reagisce dando una mano di vernice liberale al monumento giustamente eretto al solitario di Caprera. Ogni pensatore politico, ogni uomo d’azione segue il suo demone e i risultati si vedono dalle sue opere, come insegnava il vecchio Croce. E tuttavia sapere cosa veramente aveva nell’animo e nella mente Garibaldi può aiutare a comprendere alcuni problemi cruciali che, nei centocinquant’anni di storia unitaria, hanno pesato a lungo sulla nostra società civile. A cominciare dal processo faticoso di amalgama delle varie culture - innanzitutto religiose - dei vari costumi, delle varie economie, dei vari gradi di sviluppo che avevano caratterizzato gli Stati preunitari. I costruttori della nazione operarono alla grande, squadernarono tutte le loro qualità e risorse spirituali, chi nell’arte diplomatica, chi nel suscitare idealità e passioni civili, chi nel portare al massimo livello la ”guerra per bande”. Ma accanto al ”positivo” non mancarono le ombre, le incomprensioni, le accuse spesso ingiuste e infondate. Garibaldi contro Cavour e Mazzini, Mazzini contro Carlo Alberto, Vittorio Emanuele, i guelfi e quant’altro, Cavour sospettoso di iniziative di popolo e ingrato con chi tanto aveva esteso i domini del suo re etc…Le luci e le ombre del capo delle camicie rosse emergono soprattutto nei suoi romanzi - Cantoni il volontario (1870); Clelia. Il governo dei preti, (1870); I Mille (1874); Manlio (inedito ma scritto tra il 1874 e il 1876). L’autore vi si mostra con le sue intolleranze e, insieme, con la sua grandissima umanità. Estraneo, va detto, all’universo liberale - non gli bastavano né la cavouriana ”libera Chiesa in libero Stato” né il principio repubblicano di separazione: voleva l’abolizione pura e semplice della vaticanesca «razza scellerata di vipere» vomitata dall’Inferno e, quindi, la messa al bando dei seminari! - era d’avviso che «la libertà d’un popolo consista nella facoltà di eleggersi il proprio governo» e che «il sistema di governo veramente voluto dalla maggioranza della nazione, qualunque esso sia, equivalga alla Repubblica, come avviene, per esempio, del Governo inglese». Vedeva nella ”dittatura” il rimedio ai mali sociali ma avvertiva trattarsi di quella di Cincinnato e non di quella di Cesare (come tutti i liberali europei aveva in uggia l’impero romano mentre ammirava le istituzioni repubblicane, persino nella figura di Silla!) e, come esempio concreto, portava Abraham Lincoln, la cui proroga del mandato presidenziale giustificava solo con la guerra civile in corso. Convinto fautore dell’arbitrato internazionale - di cui rendeva merito a un uomo delle istituzioni come P. S. Mancini - perorava ardentemente la causa della pace ma ammetteva che «la guerra è vergognosa per una società che si chiama civile, e non si comprende perché gli uomini debbano reciprocamente uccidersi per intendersi. Ma quando disagi, pericoli, morte devono affrontarsi per la libertà del proprio paese o dell’altrui, allora la guerra diventa santa e la soddisfazione di coscienza che si prova paga con usura ogni patrimonio». Certo la sua ”sociologia del potere” era semplicistica, con l’idea fissa della metà del genere umano sfruttata dall’altra metà costituita dai potenti e dai preti, ma la denuncia - quasi ricalcata da Proudhon - dello Stato burocratico che moltiplica tasse e balzelli e sottrae ai campi e alle officine le migliori energie giovanili per destinarle alla professione del «birro, del soldato», dell’impiegato portava allo scoperto temi, si direbbe quasi, ”padani”. Insomma una personalità non poco scomoda e complessa quella del generale carismatico. Vederla nella sua oggettiva poliedricità significa non solo far seria opera di ricerca ma contribuire a una migliore comprensione delle nostre virtù, dei nostri limiti, delle nostre ”radici”.