Mario Calabrese, La Stampa, 14/09/09, 14 settembre 2009
Quando a Wall Street si spensero le luci - «Due mesi prima che nascesse nostro figlio mia moglie mi convinse a lasciare il fondo speculativo per cui lavoravo da anni per trovarmi finalmente un posto sicuro
Quando a Wall Street si spensero le luci - «Due mesi prima che nascesse nostro figlio mia moglie mi convinse a lasciare il fondo speculativo per cui lavoravo da anni per trovarmi finalmente un posto sicuro. Per questo al compimento dei 36 anni sono arrivato a Lehman Brothers: non volevo più correre rischi». Il broker che un anno fa, la mattina di lunedì 15 settembre, mi raccontava la sua storia mentre teneva in braccio la scatola con i pochi oggetti che aveva portato via dalla scrivania, non poteva credere che il mondo gli fosse caduto in testa. Era attonito, parlava con un filo di voce, eppure non aveva idea del crac che avrebbe investito il mondo. Il giorno dopo vennero disattivati i megaschermi a cristalli liquidi che coprivano il palazzo della banca d’affari, sull’angolo tra la Settima Avenue e la Cinquantesima Strada, e che fino a quel momento avevano trasmesso a ritmo continuo balene megattere che saltavano fuori dal mare, iceberg polari, prati d’Irlanda e montagne rocciose. Fu un gesto simbolico: in quel momento si spensero davvero le luci di Manhattan. Si svuotarono i negozi di lusso, i ristoranti e i grandi magazzini, ma chi cercava conforto cominciò a riempire le chiese o i bar. Gli americani cominciarono a pensare che un nuovo modello di consumo fosse possibile e la parola risparmio tornò nel vocabolario. Il Natale fu all’insegna della frugalità, ma se i bambini americani finalmente furono meno viziati gli operai cinesi del distretto del giocattolo rimasero a casa a migliaia. La crisi era diventata mondiale, milioni di disoccupati e di fabbriche chiusero e dall’Asia all’Europa nessuno venne risparmiato. Cominciarono i vertici internazionali globali, i G20, a cui trovarono posto anche Cina, India e Brasile. Prima Washington, poi Londra e dagli Stati Uniti al Giappone, passando per Pechino, vennero varati giganteschi piani di stimolo all’economia. Ora le Borse hanno recuperato, si vedono segnali di stabilizzazione ma la perdita di posti di lavoro continua. La responsabilità maggiore per il grande crollo, un anno dopo, è ancora sulle spalle del ministro del Tesoro di George Bush, Henry Paulson. Fu sua la decisione di lasciar fallire Lehman Brothers, era sicuro che il sistema avrebbe retto, che era più importante concentrarsi sul salvataggio del colosso assicurativo Aig - con cui erano assicurati milioni di cittadini americani che stavano per essere chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente - e che fosse fondamentale dare un segnale forte a Wall Street: bisognava punirne uno per educare tutti gli altri a darsi una calmata e a mettere freno alle speculazioni. Paulson sbagliò drammaticamente i suoi conti e la crisi sistemica arrivò puntuale. In questi mesi non ha mai spiegato le sue ragioni, non ha raccontato i retroscena di quel drammatico fine settimana, né le responsabilità di George W. Bush. Lo abbiamo contattato questa settimana, in uno scambio di e-mail ci ha risposto che le sue ragioni le potremo conoscere solo all’inizio del prossimo anno: sta scrivendo un lungo libro con le sue verità. Cinquanta isolati più a Nord del palazzo dove abitava Lehman Brothers, in una bellissima casa con vista sul fiume Hudson, abita l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz, critico feroce di Paulson - uomo che veniva da Goldman Sachs, storica banca rivale di Lehman - e dell’attuale amministrazione Obama. Siamo andati a trovarlo e abbiamo raccolto il suo sfogo per un sistema che non si è ancora dato nuove regole per evitare un altro crac. Dopo di lui abbiamo incontrato giornalisti e banchieri, industriali ed economisti, politici e sindacalisti, per capire se quella che appare alla fine del tunnel è davvero luce. Per capire come, nel crac globale, Cina, India e Brasile abbiano trovato il modo per continuare a crescere. Ma in un anno non è cambiato solo il nostro modo di consumare, come ci raccontano tra gli altri Vittorio Colao di Vodafone e Andrea Guerra di Luxottica, ma anche quello di immaginare il futuro. Perfino Hollywood ha cambiato la sua testa e ha cancellato la parola rischio dai suoi copioni, mentre il mercato dell’arte, dopo anni di eccessi e quotazioni record, ha visto dileguarsi i nuovi collezionisti russi e arabi. Ora bisogna sperare in nuove regole, in un ritorno della fiducia e in politiche sagge di investimenti. Questa sera Barack Obama parlerà al suo Paese dalla Federal Hall di New York, annuncerà che il peggio è passato e chiederà al Congresso di varare nuove leggi per impedire che un nuovo crollo possa avvenire. Ma nulla è certo e allora abbiamo voluto tradurre in uno slogan scaramantico la foto di copertina del settimanale americano Time della scorsa settimana: incrociamo le dita. Nel frattempo il mio broker è tornato a lavorare in quello stesso palazzo sulla Cinquantesima Strada e a fare colazione da Starbucks all’angolo: è stato assunto dalla Barclays, che ha rilevato il palazzo e una parte delle attività di Lehman. Un anno fa mi aveva detto che il fallimento era stato un atto catartico e che era giusto così, perché la furbizia non può vincere sempre. Oggi i soldi e i bonus però hanno ricominciato a girare vorticosamente intorno a lui.