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 2009  settembre 13 Domenica calendario

Colonne sonore delle dittature del Novecento - Germania, anni Venti. La Repubblica di Weimar si avvia giorno dopo giorno verso la sua capitolazione

Colonne sonore delle dittature del Novecento - Germania, anni Venti. La Repubblica di Weimar si avvia giorno dopo giorno verso la sua capitolazione. In molti cercano di esorcizzare i demoni del futuro attraverso la musica, soprattutto straniera. Anche un eremita come Harry Haller, creazione malinconica di Hermann Hesse che incarna questo Zeitgeist, viene coinvolto nelle musiche «ballabili americane», appena arrivate in Germania. «Ma non è da evitare del tutto nemmeno il jazz!», sottolinea il protagonista del Lupo della Steppa. «S’intende che, confrontata con Bach e Mozart, con la musica vera, quella musica è una porcheria, ha però il pregio di essere sincera, ha un po’ del negro, un po’ dell’americano, è antipatica, ma preferibile all’odierna musica accademica, è puerilmente fresca e ingenua». Altrove, invece, la musica già guardava indietro, alla gloriosa tradizione nazionale, in nome della propaganda e dell’autocelebrazione. In Ungheria con l’ammiraglio Miklós Horthy. In Italia con Benito Mussolini. Per non parlare di baffone Stalin in Urss. Ancora qualche anno ed arriveranno altri due generali del terrore a cantare requiem democratici e decretare le abluzioni belliche nel sangue del Vecchio Continente: Francisco Franco e, naturalmente, Adolf Hitler. In questo scenario gli anni Trenta «rappresentarono l’inizio della fase più perversa e tragica della musica del XX secolo». Parola di Alex Ross, la cui opera ultima Il resto è rumore (ed. Bompiani) è finalmente giunta in Italia. L’autore, musicologo americano, ha composto un emozionante, imperdibile volume di valore assoluto (tra i numerosi premi e riconoscimenti ricevuti, Il resto è rumore è stato finalista anche al Pulitzer 2008) sugli intrecci, a volte diabolici, tra musica e storia di tutto il Novecento. La censura, le pressioni e le tragedie alle quali la musica europea andò incontro dagli anni Trenta sino al sipario cremisi della seconda guerra mondiale hanno pochi precedenti nel corso della storia e, nel contempo, raccontano molto di quest’ultima. Ungheria, Austria, Italia, Spagna e Germania deviarono ogni sonorità per i propri fini politici. I dittatori dell’epoca segnarono e mutilarono profondamente la musica, tanto che quando gli Alleati arrivarono in Germania a ceneri di Hitler ancora calde, dovettero ricodificare gusti e "leit motiv" della musica tedesca per cancellare, o almeno rimodellare, l’indemoniato immaginario collettivo degli anni precedenti. Due, in particolare, furono i leader musicalmente devastanti: Josif Stalin e Adolf Hitler. Ma, nonostante censure, purghe e deportazioni, il lavoro dei due fu più facile del previsto. Altro che «intrinseca superiorità morale da parte degli artisti», sottolinea giustamente Ross. I compositori dell’epoca non solo non ostacolarono l’avanzata del totalitarismo, ma anzi, la maggior parte di loro l’accolse, almeno inizialmente, a braccia aperte. Il motivo? Il precariato. L’anarchia capitalistica, difatti, aveva lasciato molti artisti in un limbo senza sostegni, perché orfani di quei referenti storici come Chiesa, nobiltà e alta borghesia che avevano qualche decennio prima. Stalin e Hitler compresero subito quel sentimento. Divennero i nuovi mecenati e, uno dopo l’altro, gli artisti si schierarono dalla loro parte. Soprattutto il georgiano di Gori pur promuovendo inizialmente un «modernismo sovietico» attivò una repressione artistica certosina, facendo dimenticare il liberalismo dei primi anni della Rivoluzione promosso dal funzionario leniniano Anatolij Lunacarskij. Stalin filtrava tutti i dischi pubblicati in Urss, etichettandoli con «buono», «brutto», «spazzatura», e così via. Le sue chiamate agli artisti, spesso nel cuore della notte, potevano significare encomio ma anche un destino nefasto. Se, dopo una performance, veniva riferito ad un compositore di attendersi una chiamata dal grande capo che però non arrivava mai, di lì a poco sarebbero arrivati i secchi colpi alla porta della polizia segreta. Tutti i compositori, poi, erano sottoposti a iniziali rituali di umiliazione da parte del regime sovietico per testarne la tempra ideologica. Stalin inoltre ritemperò il concetto di realismo socialista che nella musica doveva unire realtà e eroismo - addirittura il 9 agosto 1942, con Leningrado assediata dai tedeschi, fece inscenare proprio la famosa Sinfonia di Leningrado di Shostakovich per sollevare il morale dei combattenti. Chi non si adeguava, cadeva nella rete del Terrore epurativo. Le purghe seviziarono senza pietà le spinte «troppo moderniste» o innovatrici della musica russa, in un clima di inquietante tradizionalismo «operaio». Persino a Dmitrij Shostakovic, il più popolare compositore sovietico del periodo, sparivano amici, cari o collaboratori in caso di opere scomode o eroicamente insoddisfacenti per il regime staliniano. La sua Lady Macbeth, perché «oscura e moralmente oscena», fu ripresa pubblicamente dalla Pravda, con un editoriale senza firma dal titolo «Caos anziché musica» che chiosava così: «Shostakovic ha giocato ad un gioco che può finire molto male». Durante i preparativi della prima opera sovietica di Prokofiev Semën Kotko, venne ucciso assieme alla moglie il "ribelle" regista Mejerchold che lavorava con lui. Mentre la sua "Sesta" e "Ottava sonata" vennero messe al bando perché inadatte. Gli fu ritirato il passaporto per evitare l’espatrio. Sino alla beffa finale. Prokofiev morì pochi minuti prima di Stalin, che ovviamente gli rubò tutto il compianto del popolo sovietico. Al quale venne comunicata la sua scomparsa solo cinque giorni dopo. Nella Germania nazista invece le premesse furono diverse. Nonostante il grande interesse di Hitler per la musica tradizionalista - era particolarmente ossessionato da Wagner, Tristano e Parsifal in primis -, inizialmente il Führer, deciso credente nell’assolutezza schopenhaueriana dell’arte, non voleva incorporare di netto la musica nella propaganda goebbelsiana. Ma anzi, voleva mantenere l’illusione dell’autonomia delle arti tramite un unico referente artistico, la "Reichskulturkammer" (Camera culturale del Reich). Difatti, come scrive giustamente Ross, la scena musicale tedesca «non fu semplicemente nazificata dall’alto. In larga parte, fu essa stessa a nazificarsi». Basti pensare alla conversione nazista di ex ribelli weimariani come Hindemith o, più semplicemente, alle parole di Strauss - che tuttavia ebbe un rapporto più che controverso con il regime nazista -, quando Hitler assunse il potere: «Finalmente un cancelliere del Reich che si interessa di arte». Premessa di un connubio inscindibile tra musica e politica nazista a cui mai la storia aveva assistito. L’alleanza tra musica tedesca e ideologia reazionaria risale al totem Richard Wagner. Proprio lui nel 1850 scrisse il pamphlet Gli ebrei nella musica che lamentava «l’ebraizzazione della musica tedesca», auspicando per loro "Untergang" (rovina) e "Selbstvernichtung" (autoannullamento). Da quel momento l’antisemitismo s’incanalò nella fessure ideologiche della musica tedesca, per formare crepe sempre più ampie e legarsi all’ideologia del Führer, per accompagnarla in parate e sermoni pubblici sulle note di Beethoven, Bruckner e, ovviamente, Wagner. Hitler causò alla musica tedesca danni materiali incalcolabili. Oltre alla sterilizzazione di ogni influsso esterno e alla drammatica esclusione di artisti ebrei come Will, Klemperer, Schoenberg da ogni palcoscenico del Paese - con alcune eccezioni tuttavia, vedi lo stesso Strauss e la sua famiglia "meticcia" - è lunga la lista di compositori assassinati nei campi di concentramento, di giovani talenti uccisi in Normandia e di teatri rasi al suolo. Ma soprattutto, la musica tedesca, dopo la parentesi nazista, perse molta autorità morale, macchiandosi sempre di più di un’etichetta sinistra, inumana. In questo senso, le rappresentazioni di Hollywood sono maestre. La "Nona" di Beethoven accompagna le (dis)avventure ultraviolente di Alex Delarge in Arancia Meccanica, la pioggia di missili sul Vietnam che apre Apocalypse Now ha sullo sfondo La Cavalcata delle Valchirie di Wagner, e così via. Tra i compositori tedeschi, l’unico vero dissidente fu Karl Amadeus Hartmann, che dedicò la partitura Miserae ai suoi «amici, morti a centinaia… Dachau 1933-34». Ma anche l’antinazismo di Hartmann lascia tuttora qualche dubbio, dal momento che non sembrava destare più di tanto gli istinti punitivi del partito nazista. In realtà, solo nell’Italia di Mussolini ci fu un musicista davvero ribelle ai canoni stabiliti dal Pnf. Il compositore Luigi Dallapiccola, il cui stile galleggiava tra Stravinskij e Schoenberg, aveva inizialmente sposato la causa fascista. Ma, di moglie ebrea, se ne allontanò decisamente dopo i patti con la Germania antisemita. Indimenticabili i suoi Canti di prigionia del 1941 che, attraverso Boezio, Maria Stuarda e Savonarola, sono un disperato grido di libertà. Bertolt Brecht scrisse: «Ci sono coloro che dimorano nelle tenebre, e coloro che dimorano nella luce». A parte i rarissimi esempi di Hartmann e Dellapiccola, la maggior parte dei compositori dell’epoca dimorarono nelle prime, o in nessuna delle due.