Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  settembre 08 Martedì calendario

L’8 settembre visto dai tedeschi - Alcuni anni fa, in un paesino del Nord Reno Westfalia, nella casa di famiglia di un’amica

L’8 settembre visto dai tedeschi - Alcuni anni fa, in un paesino del Nord Reno Westfalia, nella casa di famiglia di un’amica. Il nonno - un signore gentile, intorno agli ottanta ben portati - mi accompagna in giardino: «Così lei viene da Roma. Ah...che bellissima città! Sa che ci ho vissuto anche io? Quasi tre anni…» Davvero? E quando? «Fra il 1941 e il 1943 - risponde - Come ufficiale della Wehrmacht». Forse ci fu un attimo di silenzio. Pensai alle celle di via Tasso, alle deportazioni del 16 ottobre, alle fucilazioni delle Fosse Ardeatine. «Non fu una bella esperienza - riprese subito l’anziano signore - Fino al settembre del ’43 eravamo alleati. E molti di noi avevano amici italiani, erano nate relazioni sentimentali, alcuni amori, addirittura. Poi da un giorno all’altro diventammo nemici, truppe d’occupazione. Improvvisamente dovevamo temere che qualcuno ci sparasse addosso. Dopo tre anni di guerra comune. No, non fu una bella esperienza. Personalmente ci rimasi molto male». Parole pacate, che avevano avuto decenni per stemperarsi. E forse necessarie, mi trovai dopo a pensare, per poter accogliere un italiano come ospite. Ospite che intanto dovette rendersi conto di essere, come dire, un po’ spiazzato: quel signore aveva appena raccontato una nuova versione di una storia di cui pensavo di conoscere, in un certo senso, l’unica versione possibile. Ma perché poi? Quei fatti non erano stati vissuti anche da parte tedesca? E non era dunque naturale che vi fosse anche una prospettiva tedesca? 8 settembre 1943 Per gli italiani l’8 settembre 1943 è una data simbolica, un evento doloroso, ancora oggi capace di scatenare tensioni. Fine della guerra fascista, dell’alleanza con la Germania di Hitler, in fondo anche della monarchia italiana. E inizio di una nuova fase del conflitto - questa volta a fianco degli Alleati, ormai i vincitori -, della Resistenza e della guerra civile, di vari progetti di rinnovamento nazionale. Centinaia sono le opere italiane dedicate alla ricostruzione di quei giorni. Storiografia e memorialistica, letteratura e cinema, hanno fatto dell’8 settembre una delle pagine più indagate della storia del Paese. In Germania Cosa fu invece quell’evento per i tedeschi, gli ex alleati di guerra, i primi destinatari del messaggio che Badoglio, sotto ultimatum americano, si costrinse a leggere alla radio, nel tardo pomeriggio di quel mercoledì 8 settembre? Come è stato vissuto quel passaggio di fronte in Germania? Nella Germania di quei giorni, s’intende, che denunciò un tradimento sul campo e per i diciannove mesi successivi praticò una politica d’occupazione senza sconti, spesso spietata. E nella Germania che venne dopo, ricostruita sulle macerie di una disastrosa avventura bellica, rimasta silenziosamente memore del comportamento dell’ex alleato. Per comprensibili motivi storici la particolarità del "caso italiano" non è mai stata oggetto, in Germania, di un dibattito esplicito. Ma tacere di qualcosa non equivale a cancellarne il peso: il risentito commento all’8 settembre è stato così tessuto dalla vox populi ed anche per questo, forse, non ha avuto modo di cambiare di segno con il passare degli anni. «Si sarà anche combattuto sotto bandiere sbagliate - ha stabilito la versione popolare - ma abbandonare dei commilitoni per passare dalla parte del vincitore è cosa che non si fa. Mai». «Italiani traditori» quindi; e oggi, a sfumare, «Italiani inaffidabili». Perché non è cosa solo del passato: dietro le difficoltà di comunicazione che ancor oggi, a tratti, riemergono fra Italia e Germania, si riconosce l’ombra lunga di vicende mai del tutto chiarite. In grado ancora di farsi cronaca o, più precisamente, di far da sfondo a quel contrapporsi di reciproci pregiudizi in cui a volte sembrano irrigidirsi le relazioni fra Roma e Berlino. Del resto la nostra "Unzuverlaessigkeit" - inaffidabilità, parola ancor oggi "sensibile" nei rapporti Italia-Germania - veniva da lontano, almeno dal "giro di valzer" del 1915. Così nella Germania del 1943, in mezzo a una guerra che andava ogni giorno peggio, non era possibile una lettura diversa da quella di "tradimento": basta sfogliare i giornali dell’epoca per capire come l’opinione pubblica tedesca non avesse idea delle lacerazioni della realtà italiana. E non potesse ad esempio rendersi conto di come i "Partisanen" fossero, appunto, "rappresentanti di una parte", e non semplici "Banditen". Testimonianze Se si domanda agli anziani tedeschi cosa pensino, o cosa abbiano pensato, del comportamento degli Italiani nel settembre del 1943, si ottengono risposte improntate a sufficienza, ironia, rabbia non ancora del tutto digerita, a volte comprensione. Due elementi tornano con regolarità: in termini militari, il venir meno dell’Italia non sarebbe stato fonte di particolari preoccupazioni. Lo sostenne Hitler, lo affermarono i giornali dell’epoca, lo ripetono anziani e veterani, a settant’ anni di distanza. E in termini morali, il voltafaccia del ’43 non avrebbe costituito particolare sorpresa: che degli italiani non ci si potesse fidare, sia guardando alla storia che all’esperienza acquisita durante quei tre anni di guerra in comune, era cosa nota. Karl Lehmann «Sorpresi? No, non fummo sorpresi. Politicamente la cosa era nell’aria da tempo». A parlare è Karl Lehmann, classe 1919, reduce della campagna d’Africa e caduto prigioniero degli inglesi nel marzo del 1943. «Non avevamo rapporti quotidiani con gli italiani. Fiducia non ce n’era molta, e diminuiva con il passar del tempo - racconta Lehmann - Si diceva che gli italiani, in battaglia, facessero due passi avanti e tre passi indietro. Insomma che evitassero di trovarsi in prima linea. Però bisogna anche dire che se avevamo bisogno di qualcosa - cibo, benzina, cose da bere - gli italiani non si tiravano mai indietro. Se andavamo a chiedere qualcosa, non tornavamo a mani vuote». Lehmann racconta sorridendo: ha novant’anni, è sopravvissuto alla guerra riportando a casa una ferita alla testa e una alla gamba. Cittadino della Ddr, ha vissuto da Lipsia - città protagonista della "Rivoluzione pacifica" che ha decretato la fine dello Stato Operaio e Contadino - la caduta del Muro e la riunificazione della Germania. «Mi è passato davanti un intero secolo di storia e certo non sto a portar rancore per cose accadute settant’anni fa. In un certo senso, anzi, gli italiani furono più furbi di noi. Riuscirono a sfilarsi prima di vedere le loro città ridotte in cenere, come invece capitò a noi tedeschi. Dalla prigionia tornai solo nel 1948. E Lipsia era ancora piena di macerie». W. J. Siedler Simile nella sostanza, anche se non nei toni, il commento di W. J. Siedler, un reduce della campagna d’Italia che dopo la guerra divenne editore di successo, oltre che autore di alcuni libri di memorie. «L’8 settembre? In Germania non fu un evento molto sentito - mi racconta nella sua casa berlinese - Da un punto di vista militare, non avevamo molta considerazione degli italiani. E neanche molta fiducia». Siedler parla con difficoltà, a causa di un ictus che lo ha colpito anni or sono. Ripete più volte una stessa frase. «No, degli italiani non facevamo gran conto». Le "dimissioni" del Duce Vero, non vero? Atteggiamento di sufficienza, sdegno postumo? certo che i tedeschi avevano ancora ben chiari gli eventi del 1915, quando l’Italia si sganciò da Austria e Germania per schierarsi a fianco dell’Intesa. Ed è anche certo che all’Italia del secondo conflitto i tedeschi guardarono sempre più come a una sorta d’alleato minore, a cui era necessario prestare aiuto se si voleva evitare che i suoi insuccessi bellici compromettessero la situazione complessiva. Grecia, Balcani, Africa. Infine la Sicilia, la cui difesa fu essenzialmente opera delle truppe tedesche. Tuttavia il venir meno dell’Italia modificava seriamente il quadro militare e non poteva lasciar indifferenti quanti, in Germania, avevano la responsabilità della difesa del Paese. Inoltre, e non è da trascurare, entrava in gioco un elemento politico-psicologico. Il nazismo aveva preso spunto dal fascismo, e se Mussolini era venuto meno in una notte - quella fra il 24 e il 25 luglio 1943 - allora la stessa cosa non poteva accadere ad Hitler? Il punto - come dimostrano una serie di registrazioni effettuate in segreto da agenti delle SS fra la gente comune, e poi raccolte in venti volumi che portano il titolo "Meldungen aus dem Reich" - non sfuggì alla popolazione tedesca, che reagì con preoccupazione alla notizia della caduta di Mussolini. Non a caso la stampa nazista, nel riferire i fatti del 25 luglio, usò la massima prudenza, omettendo fra l’altro l’avvenuto arresto del Duce. "Cambio di governo in Italia", titolava il 26 luglio 1943 la Allgemeine Zeitung, riportando in modo neutro un lancio dell’Agenzia Stefani. Il Duce si dimetteva «per motivi di salute", mentre il Re, come era quasi naturale che fosse in un momento di allerta nazionale, assumeva «il comando delle Forze armate», affidando la guida politica a un diretto fiduciario della Corona, il maresciallo Badoglio. Nessun accenno all’arresto del Duce, nessun accenno alle manifestazioni di gioia che in Italia avevano accompagnato la caduta di Mussolini. La vita, a Roma, seguiva «normalmente il suo corso», assicurava anzi il Volkischer Beobachter, quotidiano dell’Nsdap, mentre italiani e tedeschi proseguivano la comune, eroica, difesa delle coste siciliane, dove intanto erano sbarcati gli anglo-americani. Quando in realtà la situazione in Sicilia era agli occhi di Berlino un pericoloso segnale d’allarme. Evidente infatti era la scarsa volontà degli italiani di battersi contro gli Alleati. «In Sicilia combattemmo da soli - racconta Rudy Schlaege, reduce dell’Africa prima e della campagna d’Italia poi - Dai nostri cosiddetti alleati non ricevemmo quasi nessun aiuto e dovemmo fuggire in fretta per non rimanere bloccati sull’isola, lasciando indietro molto materiale bellico. A mia memoria, uno dei momenti peggiori della guerra». Treuenbrietzen Treuenbrietzen, un paesino del Brandeburgo, circa novanta chilometri a sud di Berlino. Qui, il 26 aprile 1945 - cioè all’arrivo delle truppe sovietiche - vennero fucilati 127 prigionieri italiani, impiegati fino a quel momento come lavoratori coatti nella locale fabbrica di munizioni. A causa di quella strage - rimasta per altro a lungo sotto silenzio - fra l’Italia e Treuenbrietzen è nato un qualche rapporto di scambi culturali. Anche per questa ragione il signor Friedel Mihm - sessantadue anni, ufficiale in pensione della Bundeswehr, da anni residente a Treuenbrietzen - si è offerto di aiutarmi nell’organizzare un incontro con alcuni anziani del paese. Ma il motivo principale della disponibilità di Mihm è nella sua storia familiare, segnata dalla guerra e anche dalle vicende italiane.