LUCIA ANNUNZIATA, la Stampa 14/09/2009, 14 settembre 2009
”L’intervento dello Stato? Solo pochissimi erano in disaccordo” - Robert Thomson, australiano, sposato a Wang Ping, figlia di un generale dell’esercito popolare cinese, è direttore del Wall Street Journal, il gigante dell’informazione finanziaria con una circolazione sopra i due milioni di copie, dal 20 maggio 2008, appena quattro mesi prima del collasso di Lehman Brothers
”L’intervento dello Stato? Solo pochissimi erano in disaccordo” - Robert Thomson, australiano, sposato a Wang Ping, figlia di un generale dell’esercito popolare cinese, è direttore del Wall Street Journal, il gigante dell’informazione finanziaria con una circolazione sopra i due milioni di copie, dal 20 maggio 2008, appena quattro mesi prima del collasso di Lehman Brothers. Thomson ha una idea chiara come pochi delle dimensioni del crollo, nonché del ruolo che un quotidiano così influente come il suo può avere in negativo o positivo sulla stessa crisi. Un classico anno vissuto pericolosamente, di cui gli chiediamo oggi di raccontarci passaggi e decisioni, alla ricerca di quel che nella tempesta è cambiato sia nel modo di fare giornalismo che di dirigere un giornale. Rassicuriamo il lettore: cè il lieto fine. Dei 25 più grandi quotidiani d’America, il Wsj è l’unico che dal crac ha aumentato la sua circolazione. Tutti capiscono che è in atto una catastrofe il giorno il cui fallisce Lehman. Quando avevate capito cosa stava per scatenarsi? «Fin dalla primavera c’erano chiari segni del restringimento del credito. In particolare era preoccupante che le banche non facessero più business tra loro, insomma era evidente che c’era una paralisi in corso, che il meccanismo si era inceppato». Come decidete a quel punto di seguire la situazione? Avete fatto tutto il possibile per informare la pubblica opinione, o siete stati prudenti? «Buona domanda! Ci siamo attrezzati a seguire molto da vicino le notizie, abbiamo cercato di essere molto accurati, ma tenendo conto della responsabilità che avevamo. Il Wsj ha un impatto globale, e quando noi scriviamo dobbiamo ben tenere in mente queste dimensioni». Insomma, avevate timore di fare gli allarmisti? «Se il Wall Street Journal avesse scritto che c’era una crisi di fiducia in atto, e che le istituzioni bancarie erano bloccate, ci sarebbe stata, in tutto il mondo la corsa a ritirare i soldi». Considera di aver fatto la scelta giusta? «Sì. Anche perché la crisi non è solo un fatto finanziario, ma, in particolare in questo caso, ha avuto fattori emotivi. C’è stata una crisi di fiducia che si è propagata velocemente in tutto il mondo. In questo senso il ruolo di un quotidiano internazionale come il nostro, era rilevante». Avete subito pressioni per seguire in un modo o nell’altro gli avvenimenti? «No, pressioni niente. Piuttosto abbiamo avvertito il peso del compito che avevamo davanti. Ci siamo agganciati all’accuratezza di quel che scrivevamo. Poi a un certo punto ci siamo resi conto che dovevamo spostare l’attenzione sull’economia "reale", cioè sull’impatto che questo crollo stava avendo sulla vita quotidiana delle persone. Abbiamo chiesto ai nostri corrispondenti nazionali e internazionali di raccontarci le storie degli individui. Per questo abbiamo dedicato molto spazio in questi giorni a coloro che furono travolti dal crollo di Lehman, come quell’ex banchiere che oggi ha aperto una panetteria». E per quanto riguarda la politica? La crisi ha segnato il ritorno dell’intervento statale, mentre il Wsj è invece da sempre sostenitore del libero mercato. Avete cambiato opinione in merito? «Non posso parlare a nome della pagina degli editoriali, che è separata per statuto dal giornale ed ha un suo responsabile. Credo che in quella sezione il dibattito sul ruolo dello Stato sia stato molto acceso. Ma per quel che mi riguarda posso dire che quando si è creato un intervento a tridente della Fed, del Tesoro e del governo solo pochissimi qui sono stati in disaccordo». Si può dire, dunque, che l’emergenza ha in parte ammorbidito anche le vostre posizioni su Obama? «Ci sono tante domande: ci sono banche troppo grandi per lasciarle fallire? Viceversa ci sono banche troppo grandi che non puoi non tenerle in vita? Cosa sarebbe successo se il governo avesse evitato il crollo di Lehman? Il dibattito è iniziato allora, e non è ancora chiuso». In una contingenza che ha massacrato l’industria mediatica, siete l’unico quotidiano in America che ha visto crescere la sua circolazione. Come avete fatto? «Il principale colpo al nostro settore è stata la caduta della pubblicità, scesa del 34 per cento, e che ha interessato tutti incluso noi. Ora abbiamo piccoli segni di vitalità della pubblicità, ma è presto per dire se c’è una vera ripresa. Per quel che riguarda la circolazione credo che sia il risultato di una nostra decisione. Sull’orlo del baratro, abbiamo deciso di investire di più in giornalismo, invece che di tagliare in uomini e risorse. Il lettore alla fine riconosce chi ha più informazione, chi è più affidabile. A differenza di altri grandi giornali, il cui declino è secondo me spiegato proprio dalla caduta della loro qualità giornalistica». A quali si riferisce? «Non credo sia corretto per me fare nomi». Anche lei parla di segni di ripresa. Incerta. Come giornalista economico a cosa guarda ora per verificare se questa ripresa si rafforza? «Semplice: la pubblicità e gli indici di disoccupazione».