Maurizio Crosetti, la Repubblica 13/9/2009, 13 settembre 2009
MAURIZIO CROSETTI
VIAREGGIO
tutto comincia da un sasso, un sasso insignificante sulla strada che da scuola porta a casa. «Lo calciavo d´esterno, d´interno, di punta, di fino. A volte era una lattina vuota, oppure una pallottola di carta o un nocciolo di pesca. Accompagnava me e i miei amici, era come un´azione che non finisce mai. Perché l´istinto dell´uomo è calciare. E non a caso: si calcia per mandare la palla, il sasso, la lattina, il nocciolo in un punto preciso. Si gioca e si calcia e per fare gol».
L´ultimo sole dell´estate intiepidisce la sabbia sottile come cipria, bianca come burro. Marcello Lippi parcheggia la sua bici e si siede sotto la tenda chiara dei Bagni Lido. Ha appena incassato (vabbè, quasi) la qualificazione mondiale per difendere la sua coppa in Sudafrica, tra nove mesi. La morbidezza di settembre fa bene al cuore. «Il primo pallone, proprio il primo non lo ricordo. Ma so che ne avevamo tanti e diversi, quasi tutti di gomma. Ogni tanto capitava di incontrarne uno di cuoio ed era come un´apparizione, però non è che ci piacesse tanto. Era duro, più difficile da controllare, in ciabatte non si poteva. Andavamo di puntonate, ma così sono capaci tutti. Io ero alto, ero bravo di testa: però quei palloni pesantissimi e legati con una stringa come scarponi, se li pigliavi di taglio sulla valvola che veniva fuori come un´escrescenza o sull´allacciatura ti lasciavano il segno, ti sfregiavano. Poi il rosso sulla pelle andava via presto. Vivevamo di palloni».
La casa di Marcello è quella alta, verde, tutta vetri sul mare. Ogni tanto lui si volta e la guarda, come ad accertarsi che sia sempre lì. «Non riesco a vivere senza il mare. Ogni giorno ho bisogno di starci almeno un´ora, è un fatto fisico, mi piace sentirlo addosso, tuffarmi, annusarlo, mi piace andare al molo, stare con i pescatori oppure in barca». Il bambino che calciava sassi lo usava come la linea laterale, quando lo stadio era la spiaggia. «D´inverno si giocava in pineta e d´estate sulla sabbia, come i brasiliani, ogni giorno. E durante la Coppa Carnevale si andava a scocciare le squadre in ritiro, i giocatori, i magazzinieri, per avere un portachiavi o un gagliardetto. Per noi era carnevale due volte».
L´allenatore della nazionale: quella cosa che è di tutti e di nessuno. «Ma l´inno di Mameli è bellissimo». Quella cosa che, forse, non interessa mica tanto perché siamo ancora un´Italia di cortili, di pianterreni e pianerottoli: chiunque svolti l´angolo della via è uno straniero. «Però io vedo anche tanto amore. E vedo il talento dei nostri ragazzi: non è vero che le nuove generazioni sono solo muscoli. Io ho cercato di miscelare il vecchio e il nuovo, non escludo per antipatia e non chiamo per gratitudine. E poi, se il vecchio vale non è vecchio». Ma il calcio è ancora un posto dove mandare i nostri bambini? «Certo che sì. Sapeste quanti maestri dello sport lo fanno per passione e vogliono bene a ognuno di questi piccoli. I bimbi devono fare sport di squadra, devono imparare a dire "noi" invece che "io". Qualche volta, quando parlo con una persona cerco di capire da quello che dice se da giovane ha fatto sport di squadra o individuale, e spesso ci azzecco».
Un aquilone verde s´imbizzarrisce nel cielo smaltato. Sono languidi questi ultimi giorni al mare, da catturare prima dell´inverno che sarà. Da qualche parte tintinna il ghiaccio in uno shaker. «Quando giro in bici, ricordo. Vedo la fontanella, che è un posto in pineta dove si giocava sempre. Vedo le case dove ho abitato, in una c´è ancora la saracinesca del garage che era la nostra porta. Facevo la raccolta delle figurine, è naturale: e c´era il Pizzaballa, l´introvabile. Infatti non lo trovai mai. Quando divenni figurina io stesso, capii che il desiderio si era fatto mestiere e che ero proprio una persona fortunata. A volte mi capita di trovare una busta nella buca delle lettere: è di qualche tifoso che mi spedisce una vecchia figurina Panini con la faccia di Lippi Marcello, difensore».
Il tempo si arrotola lentamente, ma è solo un´impressione, come queste onde in rincorsa sulla spiaggia. Piedi piccoli la calpestano ed è subito di nuovo liscia, acqua e schiuma cancellano ogni traccia. «Da ragazzo giocavo mezz´ala nella Stella Rossa Viareggio. Era il 1964. Alto, discretamente tecnico, segnavo pure. Quell´anno feci il provino per Milan, Fiorentina, Bologna, Inter e mai neanche un gol, chissà perché. Finché non vennero a vedermi quelli della Sampdoria, e nella partitella segnai finalmente una doppietta. La seconda rete la ricordo come adesso: stop e tiro al volo da fuori area. Mi dissero che sarei andato a Genova per il secondo provino, quello decisivo, e mi presero pagandomi ottocentomila lire più un completo di maglie per la Stella Rossa. Quando tornavo a casa, vedevo i miei ex compagni di Viareggio con le casacche doriane e pensavo che era un po´ merito mio». Vent´anni gli è rimasta addosso la maglia diversa da tutte, "blucerchiata", un po´ come quelle degli antichi ciclisti: «Anche a Genova c´era il mare, anche a Napoli dove ho allenato un anno solo però intensissimo. Ma le cose più importanti come tecnico, a parte il mondiale, le ho vissute in una città dove il mare non c´è».
Nella città senza il mare, Torino, Marcello Lippi ha allenato colui che definisce il più grande calciatore degli ultimi vent´anni: «Zidane aveva tutto, gli schemi se li faceva da solo, non c´era bisogno di dirgli niente e neppure il concetto più importante che ripeto sempre, anche ai fuoriclasse: "Gioca per gli altri." E nei vent´anni prima, il migliore è stato senza confronti Maradona».
Il vento ha deciso di spazzare tutti i colori di questa mattina come un camion della nettezza urbana: non lascia indietro niente, nessuna sfumatura umida, tutto è nitido come appena disegnato dalla punta di una matita. I rossi (una palla, una fetta d´anguria), i verdi (un asciugamano, le foglie della bougainville), specialmente i blu. «Non ero tanto bravo a scuola e non credo che avrei continuato. I miei genitori gestivano una pasticceria e io ero in gamba con le decorazioni. Poi, è chiaro, mi occupavo delle consegne in bicicletta: penso che oggi farei quel mestiere lì. Si viveva con poco, i soldi li facevamo bastare. A me è andata di lusso, sto bene, i figli sono a posto. Però credo di essere rimasto una persona semplice, ho gli amici di allora, non cerco chissà che. Il futuro lo vedo ancora così, salute permettendo: sempre più mare come da ragazzino, la bicicletta, la famiglia, mio nipote Lorenzo». Ha già otto anni. «Quando ne aveva quattro, un giorno venne e mi chiese: "Nonno Lello, ma te sei Lippi?". Gioca a calcio nella squadra della scuola, a Roma. Da qualche mese mi pare migliorato, secondo me è portato, ha un bel dribbling, sta sulla fascia destra».
Chi vince un campionato del mondo diventa una specie di madonna pellegrina, ogni giorno è una processione di gloria e petali dalle finestre. Fino alla prima sconfitta. Fino al nuovo mondiale. Era proprio il caso di riprovarci? Cosa c´è più su del massimo? «Il massimo è un limite mentale, nella realtà non esiste. Esiste solo la prossima sfida, un´altra partita e poi ancora una. Lo so che è difficilissimo rivincere la coppa, ma io sono tornato soprattutto per rivivere certe sensazioni, per emozionarmi insieme ai ragazzi. Mi dispiace quando parlano di me come di un conservatore, perché non è vero: mi sembra che nella nazionale italiana ci siano tradizione e novità in giusta dose, e comunque non è colpa mia se le nostre squadre di club sono piene di stranieri, anche undici su undici. Non alleno la Juventus ma l´Italia: però, la Juventus ha puntato anche sugli italiani e sui giovani. Noi non siamo la Spagna che si è permessa dieci anni di esperimenti senza vincere nulla, e poi in effetti ha costruito un´ottima nazionale. Noi dobbiamo esserci sempre. E ci saremo anche in Sudafrica, perché nelle sfide dentro o fuori gli italiani trovano il meglio di loro stessi e non ce n´è per nessuno. Comunque, pensandoci, più su del massimo c´è la capacità di gioire per quello che si fa, c´è il coraggio di provarci».
Adesso il sole si è mangiato quasi tutta la mattina come un bombolone alla crema. Marcello Lippi, braghe corte e scarpe da ginnastica, maglietta rosa e occhiale da sole, rigira il cucchiaino nella tazza vuota del caffè. I pensieri si acchiappano così, dentro gesti piccoli e meccanici. «Io penso che il rispetto per gli altri sia la cosa più importante. Di più, per chi ce l´ha, forse esiste solo la fede. Se ripenso a quello che mi è successo, posso soltanto dire grazie. A volte sembro scontroso o permaloso, però non lo sono: bisogna difendersi. Ma quando entro in campo prima che la partita cominci, allora lì sono veramente felice, perché capisco che ho trasformato il sogno in mestiere e che quel sogno è diventato la mia vita. Sento il profumo dell´erba, il più inebriante, il più particolare che c´è». Da qualche parte, in strada, rotola un nocciolo di pesca.