Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  settembre 12 Sabato calendario

«Mi lasci nell’ombra, come raccomandava Gadda», finge di sollecitare. Ben sapendo che il Gran Lombardo non disdegnava, anzi, un segno (e più) di riguardo

«Mi lasci nell’ombra, come raccomandava Gadda», finge di sollecitare. Ben sapendo che il Gran Lombardo non disdegnava, anzi, un segno (e più) di riguardo... Dieci anni di attività valgono a casa Aragno il Premio Alassio-Un editore per l’Europa (la cerimonia oggi) e sono il passepartout che ne schiude l’uscio. Nella tenuta di Savigliano, questo grand commis del libro con una mano accarezza una pesca che ricorda i seni del Tintoretto ammirati da Gómez de la Serna («quando dipingeva la sua amata con un seno di fuori e con una fogliolina verde di gelso fra il seno e il corpetto, onde ne derivasse più freschezza e rilievo»). Con l’altra mano innalza un frutto non meno nobile, le Lezioni inglesi di Carlo Dionisotti, costellate - predilezione non casuale - di esuli in patria a modo loro, da De Sanctis a Manzoni. Nino Aragno, classe 1951, è una lunga fedeltà alla concretezza, alla volterriana urgenza di «servire», sospeso fra i poderi e i torchi, e le parole «classiche», ossia necessarie, incorrotte, salvifiche, «antidoti contro l’appiattimento, come, fresca di stampa, l’Ars poetica di Pound». Imprenditore - oltre che nel campo agricolo in quelli sanitario e edilizio - e mecenate, Nino Aragno, un’eco di Gualino in Provincia Granda, dipinto non da Felice Casorati, ma da Boulanger, il ritrattista di Balzac in veste da camera chiusa alla vita da un cordone (che è naturale immaginare sotto il gessato d’ordinanza). E’ nella piccola patria risorgimentale di Santorre Santarosa, «dove il liceo è ottimo, il migliore, o uno dei migliori, d’Italia», fra i campi di granturco, che la sua testimonianza civile si raffina di stagione in stagione, di innesto in potatura. Ruminando (verbo così manzoniano) l’eccelsa «predica inutile» einaudiana: la cultura che latinamente è «colere», coltivare. Come e dove nasce il lettore e, quindi, l’editore Aragno? «A Genola, a pochi chilometri da Savigliano. Ma tali da marcare la distanza. Giunto in quinta ginnasio, mio padre, un sarto che pareva uscire dai Promessi sposi, mi confezionò un abito ad hoc. Arrivato a scuola, visti i mei compagni, capii di essere così simile e così diverso da loro. Oggi, da Savigliano a New York, è l’omologazione a dominare. Non occorrerà trovare, ritrovare, un’identità?». I primi autori... «Fino ai diciotto anni ho frequentato la narrativa, immergendomi in seguito nella saggistica. Pavese e Calvino, per ragioni anche geografiche, in vetta». Amati? «Pavese fu un innamoramento profondo, che non resistette. Troppo letterato, giocava con le bambole del mito, in lui non capto il batticuore della società civile». E Calvino? «Un entomologo, una lente scientifica, un sottomarino che scruta l’universo con il periscopio. Chiamandosi fuori comunque». A chi vanno le sue preferenze? «A Beppe Fenoglio. Pavese trasloca Melville a Canelli. L’autore del Partigiano Johnny fa l’operazione contraria: scopre l’epicità nelle Langhe, non abbisogna di archetipi». E ancora? «Sicuramente Giovanni Arpino. Nel dopoguerra nessuno meglio di lui ha raccontato il superamento della società contadina. La nevrosi della città è la sua stimmata. E’ un eroe omerico. E’ uno scrittore non ”professionista”, non ombelicale, non inamidato. Fra ”i grandi giullari della realtà, disposti a cantare per re inesistenti” come mirabilmente - e indirettamente - si descrive nel carteggio con Elio Vittorini». Non dimenticando - restiamo in Piemonte - Soldati, nel suo catalogo con la tesi di laurea su Boccaccio Boccaccini. «Soldati o l’italiano, non arci, non anti, che dell’italiano ha e fa brillare le curiosità, le virtù, e qualche magagna. E’ uno scrittore - qualità rara - che sa stare a tavola con la vita». Vittorini, Soldati... «Pubblico una quarantina di titoli l’anno, i libri che mi piacciono, introvabili, o rintracciabili in edizioni modeste. I libri sottratti al giogo del marketing, che li brucia in uno, due mesi. Per me sono Bot quinquennali, almeno...I libri che bisogna meritare. Com’era salutare l’esempio di Romano Levi, il ”grappaiol’angelico”: le sue bottiglie non erano per tutti, soppesava il visitatore, succedeva che lo accomiatasse lasciandolo a mani vuote. Dal Journal integrale dei Goncourt a - in cantiere - Port Royal di Sainte-Beuve, stesso traduttore, officina ad Aci Trezza, una felice fatica di Sisifo... Da Natalino Sapegno a Leon Battista Alberti, da Renato Serra a Joris-Karl Huysmans...Ho sin qui varato ventiquattro collane, d’impronta più adelphiana che einaudiana. Rispetto alla collana specialistica, preferisco la disposizione ad anfiteatro o, se si vuole, il respiro del salotto: ci si siede e lo sguardo varia, ammirando ora un De Chirico, ora un De Pisis...». Quale il primo libro che ha pubblicato? «Non ricordo... Forse la Teoria dei colori di Goethe. Da subito dichiarandomi. Prediligo l’intellettuale non arcadico, non appartato, calato nel mondo, consapevole della sua ”complessità”. Come auspica Ottilie nelle Affinità elettive: ”L’arte si occupa delle cose difficili e di quelle che vogliono il bene”». Da Goethe a... «Al Novecento di Raffaele Mattioli, il banchiere umanista (come non inchinarsi di fronte alla sua Ricciardi?) di cui sto per licenziare La scommessa enorme di un giovane banchiere: come riformare la Comit - siamo negli anni Trenta - dopo la Grande Crisi: istruzioni feconde anche ora. E Franco Cordero, come si manifesta negli Osservanti, una magistrale orchestra di saperi: il diritto, la filosofia, la teologia, la linguistica, la psicologia. Mancava da tempo. Andai in corriera, a Cuneo, per farne le fotocopie in biblioteca». Il Piemonte, l’Italia, e oltre... «Sono, come direbbe Dionisotti, piemontese e spiemontizzato. Dunque vocato a gemellarmi. Lo dimostrano la collaborazione con il Warburg Institute di Londra (accogliendo le opere dello storico dell’arte), con il Collège de France, con l’Universität di Berlino (ospitando la biblioteca cabbalistica di Giovanni Pico della Mirandola)». Piemontese e spiemontizzato... «Sin dalle fondamenta. Questa mia cascina appartenne ai Denina, la famiglia dell’abate Carlo, un vertice del Settecento riformatore di Franco Venturi e di Piero Gobetti, l’editore ideale, un inarrivabile e inevitabile specchio. Di Gobetti, più che l’eroe antifascista, ammiro la straordinaria intelligenza e il torinese, infrangibile, grumo di doverismo». Torino... «La mia capitale. Inauguro, in piazza Solferino, una sede di rappresentanza. Voglio così simboleggiare l’adesione alla divisa indigena. Permeata di un calvinismo che sapientemente mescola etica dei principi e etica dei risultati. Qui, a Torino, in Piemonte, più che la singolarità si insegue l’eccellenza. I carrelli per la Nasa non li fabbrichiamo forse noi?». E’ un fattore dell’editoria, Nino Aragno: giorno dopo giorno non manca di gettare il seme (Le opere, i giorni di Esiodo è il suo livre de chevet), ostinatamente fiducioso che l’ora della raccolta verrà, che la zizzania sarà, se non debellata, arginata. E’ l’etica dell’estetica la sua bussola, la suprema eleganza. Con Vitaliano Brancati può dire: «Noi siamo dei classici che viviamo clandestinamente in un’epoca di decadenza (...). L’eleganza, se così si vuole chiamare il nostro povero tentativo di ricordarci, parlando, che abbiamo letto qualche buon libro, è un segno d’intesa, la parola d’ordine con la quale ci riconosciamo».