Francesca Paci, La stampa 11/9/2009 Sergio Romano, Corriere della sera 11/9/2009, 11 settembre 2009
2 articoli: LE PAURE DELLA THATCHER "E SE TORNA UN ALTRO HITLER?" - Il crollo del muro di Berlino sta per compiere vent’anni ma ne dimostra molti di più
2 articoli: LE PAURE DELLA THATCHER "E SE TORNA UN ALTRO HITLER?" - Il crollo del muro di Berlino sta per compiere vent’anni ma ne dimostra molti di più. A ripensarla oggi, la notte del 9 novembre 1989, risulta talmente organica all’album di famiglia occidentale che sembra impossibile averla temuta tanto. Eppure allora non tutti erano esattamente sincronizzati con l’orologio della storia. Il premier anglosassone Margaret Thatcher e il presidente francese François Mitterrand, per esempio, non lo erano affatto. Un pacchetto di documenti desecretato ieri dal Foreign and Commonwealth Office, il ministero degli Esteri britannico, rivela dettagli inediti sulla linea a dir poco tiepida delle due segreterie. Che Londra e Parigi guardassero con sospetto la riunificazione tedesca era da tempo materia di studi accademici. Quello che emerge dalle cinquecento pagine appena rese pubbliche, però, è assai più di uno scetticismo politico. La Lady di ferro, in particolare, si aspettava il peggio: l’affermazione di una grande Germania che potesse riproporre le condizioni dell’ascesa di Hitler. Nella primavera del 1989 Sir Christopher Mallaby e Nigel Broomfield, rispettivamente ambasciatori britannici a Bonn e a Berlino Est, capiscono che la guerra fredda è finita ma intercettano l’ansia di Downing Street. «Sarebbe difficile immaginare che la Germania federale si allontani dall’Alleanza Atlantica, pur tuttavia si discute del rischio che un giorno la riunificazione tedesca possa indebolirne l’allineamento con l’occidente», scrive Sir Christopher Mallaby il 10 aprile 1989. La Thatcher lo sa e, nonostante il consigliere Sir John Fretwell ripeta che «la storia è in movimento e provare a mantenere la divisione artificiale della Germania alienerebbe a Londra il favore di molti alleati», insiste che «qualsiasi siano le loro posizioni ufficiali, Regno Unito, Francia e Unione Sovietica si oppongono all’unificazione». Le immagini del crollo del muro incollano il mondo alla tv. Il mattino seguente la Lady di ferro chiama il cancelliere Helmut Kohl per felicitarsi e sottolineare che «adesso l’obiettivo più importante è stabilire un governo realmente democratico nella Germania dell’Est». Il Regno Unito, suggerisce la corrispondenza dell’ambasciatore Nigel Broomfield, confida ancora in un rinvio di un paio d’anni. Il 15 novembre la premier parla a Westminster perché Berlino intenda: «Sebbene le potenze occidentali si siano espresse sin dal 1955 per l’autodeterminazione della Germania dell’Est, la riunificazione tedesca non dovrebbe essere trattata come un tema impellente ma andrebbero prese in considerazione le conseguenze di questa catena di eventi sulla posizione del presidente Gorbaciov». Gli spin doctors avvertono Downing Street che un’ostilità troppo esplicita potrebbe costare parecchio al Regno Unito in termini d’influenza sul futuro partner europeo. Ma nei giorni successivi al piano in dieci punti presentato da Kohl alle grandi potenze, il gelo d’oltremanica fa temere una nuova cortina. L’ambasciatore a Bonn informa che da quelle parti gli inglesi non sono mai stati tanto impopolari. Il 20 gennaio 1990, durante un pranzo a Parigi, il presidente Mitterrand confida alla Thatcher di condividerne le perplessità: «Se alla Germania verrà concesso di espandersi territorialmente, l’Europa ne pagherà le conseguenze e ci ritroveremo dove eravamo prima della Grande Guerra». Lei ipotizza addirittura l’ascesa di un nuovo Hitler, proiezione involontaria della convinzione profondamente britannica di una sorta di affinità elettiva tra il Bundestag e il Terzo Reich. La storia è andata diversamente, osserva Richard Whitman, docente di storia internazionale alla London School of Economics: «I costi dell’unificazione hanno creato alla Germania parecchie difficoltà interne, soprattutto in campo economico, dove la Gran Bretagna è riuscita a doppiare i risultati del temuto concorrente». Se la Thatcher non avesse corretto il tiro afferrando ai tempi supplementari la strategia di Mitterrand, che in privato la incoraggiava ad attaccare l’unificazione ma in pubblico manteneva una posizione ambigua per non inimicarsi la Casa Bianca e non pregiudicare il contributo tedesco alla moneta unica, il canale della Manica sarebbe oggi più ampio. «Più del ritorno di Hitler, la Thatcher paventava che la Germania unita svoltasse a sinistra, cedendo all’influenza dell’Est. In ballo c’era l’equilibrio dei poteri globali» chiosa il professor Whitman. Il mondo si è lasciato alle spalle la guerra fredda, la sua logica forse no. QUANDO MITTERAND E LA THATCHER NON VOLEVANO LA GERMANIA UNITA- Il leader francese disse: così avranno più terra di Hitler I cinquecento documenti rilasciati dagli archivi del Foreign Office sulla fredda accoglienza che Margaret Thatcher e François Mitterrand riservarono 20 anni fa alle prospettive di una Germania unificata sono certamente interessanti. E’ divertente apprendere che la Lady di Ferro fu scossa da un brivido quando seppe che i deputati del Bundestag avevano cantato in piedi un inno che nella sua versione originale conteneva le parole «Deutschland über alles» (la Germania al di sopra di tutto). sorprendente scoprire che François bisbigliò a Margaret, nel corso di un colloquio, il suo timore che la nuova Germania sarebbe stata territorialmente più vasta di quella di Hitler. Ed è naturale chiedersi, con una punta di malizia, perché il Foreign Office abbia deciso di pubblicare ora, nel ventennale del crollo del muro di Berlino, documenti che avrebbe potuto conservare nei propri archivi, secondo la legge, per altri dieci anni. Ma è improbabile che questi documenti, quando potremo leggerli integralmente, ci raccontino una storia diversa da quella che già conoscevamo. Per comprendere lo stato d’animo dei protagonisti di quelle vicende conviene comunque fare un passo indietro e ripercorrere brevemente la storia dei mesi precedenti. Come dice il titolo di uno splendido album fotografico pubblicato dal governo ungherese nelle scorse settimane, il 1989 fu «l’anno dei miracoli». In marzo i sovietici andarono alle urne per eleggere il Congresso del popolo e poterono scegliere, per la prima volta, fra una pluralità di candidati. Qualche settimana dopo i polacchi appresero che una «tavola rotonda », composta dai rappresentanti del governo e della opposizione, si era accordata sulla data di elezioni finalmente libere. Poco più di un mese dopo, alla fine di maggio, i cinesi approfittarono della visita di Gorbaciov a Pechino per portare in piazza Tienanmen un fantoccio di papier maché che assomigliava maledettamente alla statua della Libertà. Pensavamo che le repressioni poliziesche di Pechino dopo la partenza del leader sovietico, l’arrivo dell’estate e la partenza per le vacanze avrebbero interrotto la sequenza dei miracoli. Accadde invece che i turisti della Germania dell’est in Cecoslovacchia e in Ungheria approfittassero delle vacanze per dire pubblicamente addio al loro «paradiso» socialista. Avevano riempito le piccole Trabant delle loro cose più care, avevano attraversato la frontiera e si erano installati notte e giorno di fronte agli uffici diplomatici e consolari della Repubblica federale per chiedere asilo alla loro patria democratica. Dopo un frenetico scambio di messaggi fra Berlino est, Mosca, Budapest e Praga, i turisti esuli furono autorizzati ad attraversare la frontiera con l’Austria e a raggiungere la Germania occidentale. Nell’album ungherese vi sono commoventi fotografie di intere famiglie che fanno il bucato nel Danubio, stendono i loro panni sugli alberi del lungofiume, dormono sul marciapiedi in un sacco a pelo, spingono le Trabant verso il confine e piangono di gioia quando i doganieri ungheresi alzano le sbarre di frontiera. La scena, in ottobre, si sposta a Berlino est dove la nomenclatura comunista si appresta a celebrare il quarantesimo anniversario della fondazione della Repubblica democratica. Gorbaciov ha deciso di partecipare ai festeggiamenti. arrabbiato con Erich Honecker, leader della Rdt e colpevole di avere accolto freddamente il programma riformatore del Cremlino. Il viaggio servirà a redarguire il satellite riluttante e a dimostrare che la perestrojka può essere il programma comune di tutto il blocco sovietico. Accadrà invece il contrario. Come i cinesi a Pechino, i tedeschi della Germania orientale approfittano della visita di Gorbaciov per inscenare manifestazioni che cominciano a Lipsia e si concludono trionfalmente a Berlino. Da quelle manifestazioni e dal crollo del muro comincia, con un tragicomico crescendo, il rapido declino del regime comunista. Alla fine del 1989 il cancelliere Helmut Kohl ha già deciso di cogliere questa storica occasione: la Repubblica federale avrebbe annesso la Repubblica democratica e ricomposto l’unità della patria tedesca. Fu questo il momento in cui i maggiori leader europei cominciarono a manifestare le loro preoccupazioni. Conosciamo i sentimenti di Margaret Thatcher e sappiamo che Giulio Andreotti, prendendo a prestito una battuta del romanziere François Mauriac, disse di amare la Germania al punto di preferire che ve ne fossero due. Ma il leader più inquieto era certamente Mitterrand. Il presidente francese aveva stretto eccellenti relazioni con Kohl, ma sapeva che l’asse franco-tedesco poggiava su un rapporto asimmetrico. La Francia era economicamente più debole della Germania, ma aveva il rango del Paese vincitore, un arsenale nucleare e un seggio permanente al Consiglio di sicurezza. La Germania era un colosso economico, ma era dimezzata e aveva tuttora, 44 anni dopo la fine del conflitto, una sovranità parziale. Finché le cose fossero rimaste così ciascuno dei due Paesi avrebbe potuto contare sull’amicizia dell’alto. Ma che cosa sarebbe accaduto il giorno in cui la Germania, finalmente riunificata, sarebbe diventata nuovamente la potenza dominante della Mittel Europa? Per evitarlo Mitterrand cercò di correre ai ripari con una improvvisa visita a Berlino est nel gennaio del 1990. Era una dimostrazione di fiducia nell’esistenza dello Stato comunista dietro la quale si nascondeva il disegno di una Confederazione germanica costituita da due Stati sovrani. Il presidente francese aveva parecchi alleati nella società tedesca. Gerhard Schröder, futuro cancelliere social-democratico, Joschka Fischer, futuro ministro degli Esteri, e Günter Grass, icona della intelligencija di sinistra, erano dello stesso parere. Troppo tardi. Kohl non volle perdere il treno della storia e poté contare sulla collaborazione di George Bush sr., molto più lungimirante dei leader europei. Esisteva ancora tuttavia un nodo da sciogliere. Occorreva convincere l’Unione Sovietica di Gorbaciov che l’unificazione tedesca non avrebbe turbato gli equilibri est-ovest. Nel corso di un colloquio con il segretario di Stato americano James Baker a Mosca nel 1990, Gorbaciov disse che avrebbe ritirato le truppe sovietiche dalla Ddr (300.000 uomini), ma non avrebbe tollerato l’esistenza di una Germania unificata nella Nato. In un articolo apparso nell’ultimo numero di Foreign Policy (la rivista americana diretta da Moisés Naím) l’ex senatore Bill Bradley scrive che Baker, dopo un lungo negoziato, aveva guardato Gorbaciov negli occhi e gli aveva detto: «Senta, se lei toglie le sue truppe e permette la riunificazione della Germania nella Nato, la Nato non espanderà di un pollice verso est». Le cose, come sappiamo, sono andate diversamente, ma gli americani si giustificano sostenendo che l’interpretazione corretta delle parole di Baker è: «Non stazioneremo truppe non tedesche della Nato nei territori che avevano fatto parte della Germania Orientale». Celebriamo dunque con gioia la caduta del muro e l’unificazione tedesca, ma non dimentichiamo che in quegli stessi mesi, mentre si alzava infine il sipario di ferro, Washington gettava il seme della nuova crisi che avrebbe turbato i rapporti russo-americani vent’anni dopo.