Varie, 11 settembre 2009
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Hands Guy
• Kent (Gran Bretagna) 27 agosto 1959. Finanziere • « Per la gran parte dei ”creatives” britannici [...] sta all’industria della musica pop come Dick Cheney sta alla democrazia: è uno stronzo che andrebbe cancellato dalla terra. Nel 2002 la sua società di private equity, Terra Firma, è diventata la principale azionista della storica casa discografica EMI, l’unica ”major” in mani britanniche, e da sempre casa dei Beatles, dei Beach Boys, dei Pink Floyd, e in tempi più recenti dei Coldplay e dei Rolling Stones. Malgrado la sua comprovata abilità nel ridare lustro alle aziende acquistate (o meglio ”divorate”), i pregiudizi nei confronti di questo ”capitalist pig” dalle noiose origini medioborghesi, con la faccia un po’ infantile e la frangetta bionda da nerd sovrappeso, sono sempre stati forti. Era soltanto un ”suit”, letteralmente un abito maschile, pantalone e giacca, sprezzante metafora per designare un uomo d’affari, un manager, di quelli che amministrano – e forse controllano – le attività della razza superiore, cioè i creativi. Lettere di protesta plurifirmate indirizzate ai media, battutacce nei talk-show, ostracismi alle cerimonie pubbliche diventate ormai centrali per il rito della ”rock&roll industry”: non c’era nessuno mai a difenderlo. Tranne William Hague, giovane e ”un-cool” ex leader dei conservatori, suo migliore amico e testimone di nozze. Ma un simile testimonial ha una valenza negativa nella Swinging London. Malgrado i molti milioni di sterline spesi per promuoverli nei primi anni di notorietà, i Radiohead di Thom Yorke, sempre più radical chic nelle dichiarazioni man mano che vendevano più dischi, hanno lasciato la EMI sbattendo la porta. ”Con uno come Hands, che vuole soltanto distruggere la creatività, non possiamo combinare affari”, dichiarò l’anima bellissima Thom. Poco dopo persino i Rolling Stones hanno abbandonato la EMI per simili motivi: proprio Mick Jagger, che calcola i guadagni della sua band come l’antieroe del romanzo ottocentesco Silas Marner contava le sue monete d’oro di notte, ha emesso il magistrale ”non possumus”. Nonostante l’allarme collettivo per la crisi dell’industria discografica provocata dall’’illegal file sharing” (lo scaricamento abusivo dei brani), erano in molti nei salotti londinesi a sperare in un crollo della EMI, per distruggere ”una volta per sempre” l’indebita ingerenza dei ”suit” della Terra Firma Private Equity. [...] Hands aveva di fatto perso molti milioni: sembrava la fine del suo ”sogno capitalista”. [...] Rimasto sempre zitto davanti agli snobismi e i rifiuti, ha continuato [...] a lavorare in silenzio sul suo grande progetto, difficilissimo da realizzare, sia dal punto di vista tecnico sia da quello legale: la rimasterizzazione dell’intero catalogo dei Beatles, il pezzo forte della EMI. stato un successo straordinario che ha scatenato una nuova ondata di quella Beatlemania che soltanto i ”matusa” si ricordano oggi. Ed è tutto merito della visione di un solo uomo: non Paul McCartney, nemmeno il grande regista storico dei Fab Four, Sir George Martin (ormai considerato da tutti ”il quinto beatle”), ma dallo stronzo capitalista della Private Equity. Che, fatta eccezione per un pezzo sul Financial Times, non viene menzionato in nessuno dei mille articoli pubblicati sull’evento. Sul Times, Danny Finkelstein ha scritto una column dal titolo: ”I Beatles erano il trionfo del capitalismo”, in cui ricorda il ruolo del loro manager e guru Brian Epstein, morto suicida a 32 anni nel 1967. Anche lui era un ”suit”: bruttino, un po’ sfigato, ma con uno straordinario fiuto commerciale. Fu lui il primo a esercitare il controllo totale sulla qualità dei prodotti associati al gruppo, dai dischi alle copertine, dai libri spin off ai film, dai gadget pubblicitari alle interviste concesse. Questa mentalità commerciale ha garantito il successo mondiale dei Beatles, ed è stata studiata e copiata da ogni cantante o complesso dal 1963 in poi. Per Finkelstein, Epstein è il sesto beatle. E [...] Guy Hands merita di diventare il settimo» (William Ward, ”Il Foglio” 11/9/2009).