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 2009  settembre 10 Giovedì calendario

QUANDO BAUDELAIRE SOGNO’ IL CROLLO DELLE TORRI GEMELLE


«Sintomi di rovina. Come avvertire la gente, le nazioni?»

In un foglietto isolato, non databile, oggi al­la Biblioteca Jacques Doucet, Baudelaire ha raccontato il crollo di una immensa tor­re, che un giorno si sarebbe chiamata grat­tacielo. Provava un senso di impotenza perché non riusciva a trasmettere la notizia alla «gen­te », alle «nazioni». Così doveva contentarsi di sussurrarla ai «più intelligenti». Ma anche il sus­surro dovette aspettare più di un secolo per essere stampato. E nes­suno lo notò. Le «nazioni» non fe­cero in tempo ad accorgersi di che cosa le attendeva. Era tutto ac­caduto in sogno, in uno di quei sogni a cui Baudelaire era avvez­zo: quelli che danno voglia di non dormire mai più: «Sintomi di rovina. Edifici im­mensi. Numerosi, uno sull’altro, appartamenti, camere, templi , gal­lerie, scale, budelli, belvedere, lanterne, fontane, statue. – Fen­diture, crepe. Umidità che provie­ne da una cisterna situata vicino al cielo . – Come avvertire la gen­te, le nazioni ? – avvertiamo in un orecchio i più intelligenti.

«In cima, una colonna cede e le sue estremità si spostano. Anco­ra non è crollato nulla. Non rie­sco più a ritrovare l’uscita. Scen­do, poi risalgo. Una torre-labirin­to. Non sono mai riuscito a usci­re. Abito per sempre un edificio che sta per crolla­re, un edificio intaccato da una malattia segre­ta.

’ Calcolo, dentro di me, per divertirmi, se una massa così prodigiosa di pietre, marmi, sta­tue, muri che stanno per cozzare fra loro saran­no molto imbrattati da questa massa di materia cerebrale, di carne umana e di ossa sbriciolate». Quando la «notizia» di questo sogno giunse alle «nazioni», tutto corrispondeva, con una sola ag­giunta: le torri erano diventate due – e gemelle.

Un ipotetico corrispettivo di Baudelaire in im­magini è cinema in bianco e nero – e potrebbe essere composto da figure di Guys sovrapposte a un paesaggio di Méryon, che emana «la solenni­tà naturale di una città immensa». Scale, tende, ombre, sfiorate dall’obbiettivo di Max Ophuls. Contrasto fra la morbidezza vibrante della carne e l’asprezza secca della pietra. Nulla di più remo­to dal plein air impressionista, inventato da pit­tori «ancora troppo erbivori» per il sistema ner­voso di Baudelaire. In Manet apprezzava «il più forte sapore spagnolo», il fondo di tenebra, che può schiudersi nell’«incanto inatteso di un gio­iello rosa e nero», ma non vi sono cenni che in­travedesse in lui la «luminosità bionda» celebra­ta da Zola.

Perfettamente consapevole della sua affinità con Méryon, Baudelaire gli propose una pubbli­cazione che li associasse, in parole e immagini. Ma tutto fu vano. Méryon viveva chiuso in una rocciosa paranoia – e con lui Baudelaire si tro­vò costretto ad assumere, forse per l’unica volta in vita sua, il ruolo del buon senso.

Un giorno, mentre guardavano insieme l’ac­quaforte del Petit Pont, Baudelaire si accorse che Méryon aveva introdotto nel cielo uno stormo di predatori. Sommessamente osservò «che era in­verosimile mettere tante aquile in un cielo parigi­no ». Con gravità Méryon gli rispose che « quelli là (il governo dell’imperatore) avevano spesso fatto volare aquile per studiare i presagi secondo il rito, – e che questo era stato stampato sui giornali, anche sul Moniteur ». Pausa di silenzio. Poco dopo, Méryon chiede a Baudelaire se cono­sce Poe. Baudelaire gli spiega che lo conosce «più di ogni altro». Méryon prosegue, imperter­rito. Chiede a Baudelaire se crede «alla realtà di quell’Edgar Poe». Baudelaire domanda, interdet­to, a chi altrimenti «attribuiva tutti i suoi raccon­ti ». Méryon: « A una società di letterati molto abi­li, molto potenti e al corrente di tutto ». Poi conti­nua ad argomentare, secondo i suoi imperscruta­bili criteri.

Quando si separarono, Baudelaire si era reso conto di aver parlato con qualcuno che viveva stabilmente in una terra inavvicinabile: «Quan­do mi ha lasciato, mi sono chiesto come mai io, che ho sempre avuto, nella mente e nei nervi, tutto quel che occorreva per diventare pazzo, non lo sia diventato. In tutta serietà, ho rivolto al cielo i ringraziamenti del fariseo».

Negli accaniti ritocchi alle sue liriche, fino all’ultimo Baudelaire si batteva con le maiusco­le.

Su un foglio di bozze si appellava a Pou­let- Malassis: «Amo le maiuscole; ma in questi casi che ne pensate?». I tentennamenti erano innumerevoli. Introdurne di nuove? Eliminar­ne? In quei dubbi tenaci Baudelaire rivelava la novità del suo gesto. La maiuscola che segnala una personificazione è un procedimento anti­co, prediletto dai barocchi. E Baudelaire vuol quasi sottolineare questa discendenza, innanzi­tutto per via della sua inclinazione per l’allego­ria. Ma, osservando da vicino le oscillazioni, da una stesura all’altra, si nota che le entità maiu­scolizzate vanno ben oltre il repertorio baroc­co. Accanto ai nobili astratti, accanto alle pas­sioni e ai sentimenti si fanno avanti gli oggetti – talvolta invadenti. Viene il sospetto che Bau­delaire abbia bisogno delle maiuscole come Balzac del pullulare dei suoi personaggi. une Madone maiuscolizza ceri, scarpe di seta, lacri­me, vapori, coltelli . Questi ultimi subito antece­denti al cuore dove vanno a conficcarsi. Ma tut­ta la lirica è sovraccarica e si presenta come «un ex voto in stile spagnolo». Più sottile e sconcertante il procedimento nel Crépuscule du soir . Qui si assiste a una vasta sostituzione delle maiuscole. Alcune, che spiccavano nella prima stesura, finiscono nel testo stampato co­me minuscole: così il verme , il gioco , l’ ospeda­le , l’ anima . Ma, all’inverso, alcune minuscole vengono innalzate alla maiuscola nell’ultima stesura. Che cosa rimane alla fine? La Prostitu­zione ,

l’ Uomo , la Notte . Un’oscura e coerente elaborazione conduce al risultato. I suoi criteri possono variare da poesia a poesia. In questo caso si direbbe che Baudelaire voglia ricondur­re il crepuscolo al suo triangolo essenziale. Ma altrove il procedimento potrebbe essere diver­so. Costante è solo l’importanza attribuita alle maiuscole, come a una tastiera segreta, che si lascia percepire ogni volta in modo imprevedi­bile – e sempre espande i suoi registri fino a coincidere, in rari momenti, con l’insieme di ciò che è. In quei momenti, scrisse Baudelaire, «tutto per me diventa allegoria». La riprova, al negativo, si ha nel fatto che, quando una visio­ne è solo allegoria, le maiuscole scompaiono, ormai superflue. Da una lettera a Calonne, edi­tore di Baudelaire nell’occasione: « Danse ma­cabre non è una persona, è un’allegoria. Mi sembra c he non ci debbano essere maiuscole ».

Baudelaire non aveva talento di autore dram­matico. Ma più volte fu tentato dal teatro, soprat­tutto come miraggio di rapidi guadagni. Nel gen­naio 1854 Hippolyte Tisserant, celebre attore del­l’Odéon, gli lanciò una di quelle proposte. Baude­laire gli rispose con una lunga lettera dove innan­zitutto prendeva l’occasione per chiedere soldi in prestito. Ma poi, come prova di buona volon­tà, stendeva una traccia di quel che sarebbe do­vuto diventare «un dramma altamente melanco­nico basato sulla fantasticheria, la fannullaggi­ne, la miseria, l’ubriachezza e l’assassinio ». Pro­cediamo nella lettura e, quasi inoltrandoci in una allucinazione, ci rendiamo conto che stiamo seguendo una storia parallela e tremendamente affine a quella del Wozzeck di Büchner. Che al­l’epoca non era ancora stato rappresentato in tea­tro, a quasi vent’anni dalla morte dell’autore, e avrebbe ancora atteso a lungo un’affidabile edi­zione a stampa. Impossibile dunque che Baude­laire conoscesse quel testo. Eppure, come spinto da un possente magnete, Baudelaire aveva indivi­duato una materia drammatica che presentava a Tisserant con parole spesso adattabili anche al Wozzeck . Intanto la fonte: come per Büchner, un caso di cronaca nera. Poi l’ambiente. Baudelaire: «La mia preoccupazione principale, quando ho cominciato a fantasticare sul mio soggetto fu: a quale classe, a quale professione deve appartene­re il personaggio principale? – Con decisione ho adottato una professione pesante, triviale, ru­de. IL SEGATORE DI ASSI». Poi ci vuole una can­zone «orribilmente melanconica» (come nel Wozzeck ). Poi il dramma: «Questo segatore di as­si così amabile finisce per gettare sua moglie nel­l’acqua » (come nel Wozzeck ). Il motivo? «Ubria­chezza e gelosia ». Soprattutto: impossibilità di sopportare l’innocenza della donna. Il delitto: nel Wozzeck c’è un bosco e uno stagno sinistri; nel dramma di Baudelaire: «Strada o pianura bu­ia. – In lontananza, suono di un’orchestra di ba­lera. – Paesaggio sinistro e melanconico dei dintorni di Parigi. Scene d’amore, – il più possi­bile tristi, – fra quest’uomo e sua moglie». In Büchner, Wozzeck uccide la moglie a coltellate subito dopo averla carezzata. In lontananza, mu­sica di osteria. Poi Wozzeck getta il coltello nello stagno. In Baudelaire, il segatore lascia annegare la moglie in un pozzo «quasi a fior di terra». Le somiglianze con Büchner investono anche la for­ma. In un poscritto a Tisserant, Baudelaire scri­ve: «Sarei ben disposto a dividere l’opera in vari quadri corti, invece di adottare la scomoda divi­sione dei cinque atti lunghi». Ciò che Baudelaire suggerisce è ciò che Büchner aveva già compiuto – efa del Wozzeck il primo, oltre che il più gran­de, dei drammi espressionisti.

Infine: perché il delitto accade? Perché è «un’atrocità senza pretesto», secondo Baudela­ire. E la vera differenza, dove splende il genio drammaturgico di Büchner, sta nel fatto che Wozzeck non ha bisogno di essere un alcolizza­to, come il segatore di assi di Baudelaire: Woz­zeck uccide perché qualcosa lo spinge a uccide­re: un marasma insanabile. Era questa – ag­giungeva Baudelaire – la sfida più difficile: far capire il delitto. E aggiungeva: «Tenete presen­te inoltre che il pubblico dei teatri non ha fami­liarità con la sottilissima psicologia del crimi­ne ». Di ciò, appunto, trattavano Büchner – e Baudelaire. Tutti e due sembrano aver avuto la visione di una stessa materia drammatica, do­tata di una vita propria , che aspettava soltanto loro per manifestarsi. Ma non tutto era pronto. Ci sarebbe voluto ancora un lungo periodo di latenza prima che il Wozzeck deflagrasse alla luce e nel suono dell’orchestra di Berg. Per Bau­delaire quel progetto di dramma sarebbe rima­sto come una fra le tante «belle occasioni» che era abituato a perdere.