Roberto Calasso, Corriere della sera 10/9/2009, 10 settembre 2009
QUANDO BAUDELAIRE SOGNO’ IL CROLLO DELLE TORRI GEMELLE
«Sintomi di rovina. Come avvertire la gente, le nazioni?»
In un foglietto isolato, non databile, oggi alla Biblioteca Jacques Doucet, Baudelaire ha raccontato il crollo di una immensa torre, che un giorno si sarebbe chiamata grattacielo. Provava un senso di impotenza perché non riusciva a trasmettere la notizia alla «gente », alle «nazioni». Così doveva contentarsi di sussurrarla ai «più intelligenti». Ma anche il sussurro dovette aspettare più di un secolo per essere stampato. E nessuno lo notò. Le «nazioni» non fecero in tempo ad accorgersi di che cosa le attendeva. Era tutto accaduto in sogno, in uno di quei sogni a cui Baudelaire era avvezzo: quelli che danno voglia di non dormire mai più: «Sintomi di rovina. Edifici immensi. Numerosi, uno sull’altro, appartamenti, camere, templi , gallerie, scale, budelli, belvedere, lanterne, fontane, statue. – Fenditure, crepe. Umidità che proviene da una cisterna situata vicino al cielo . – Come avvertire la gente, le nazioni ? – avvertiamo in un orecchio i più intelligenti.
«In cima, una colonna cede e le sue estremità si spostano. Ancora non è crollato nulla. Non riesco più a ritrovare l’uscita. Scendo, poi risalgo. Una torre-labirinto. Non sono mai riuscito a uscire. Abito per sempre un edificio che sta per crollare, un edificio intaccato da una malattia segreta.
’ Calcolo, dentro di me, per divertirmi, se una massa così prodigiosa di pietre, marmi, statue, muri che stanno per cozzare fra loro saranno molto imbrattati da questa massa di materia cerebrale, di carne umana e di ossa sbriciolate». Quando la «notizia» di questo sogno giunse alle «nazioni», tutto corrispondeva, con una sola aggiunta: le torri erano diventate due – e gemelle.
Un ipotetico corrispettivo di Baudelaire in immagini è cinema in bianco e nero – e potrebbe essere composto da figure di Guys sovrapposte a un paesaggio di Méryon, che emana «la solennità naturale di una città immensa». Scale, tende, ombre, sfiorate dall’obbiettivo di Max Ophuls. Contrasto fra la morbidezza vibrante della carne e l’asprezza secca della pietra. Nulla di più remoto dal plein air impressionista, inventato da pittori «ancora troppo erbivori» per il sistema nervoso di Baudelaire. In Manet apprezzava «il più forte sapore spagnolo», il fondo di tenebra, che può schiudersi nell’«incanto inatteso di un gioiello rosa e nero», ma non vi sono cenni che intravedesse in lui la «luminosità bionda» celebrata da Zola.
Perfettamente consapevole della sua affinità con Méryon, Baudelaire gli propose una pubblicazione che li associasse, in parole e immagini. Ma tutto fu vano. Méryon viveva chiuso in una rocciosa paranoia – e con lui Baudelaire si trovò costretto ad assumere, forse per l’unica volta in vita sua, il ruolo del buon senso.
Un giorno, mentre guardavano insieme l’acquaforte del Petit Pont, Baudelaire si accorse che Méryon aveva introdotto nel cielo uno stormo di predatori. Sommessamente osservò «che era inverosimile mettere tante aquile in un cielo parigino ». Con gravità Méryon gli rispose che « quelli là (il governo dell’imperatore) avevano spesso fatto volare aquile per studiare i presagi secondo il rito, – e che questo era stato stampato sui giornali, anche sul Moniteur ». Pausa di silenzio. Poco dopo, Méryon chiede a Baudelaire se conosce Poe. Baudelaire gli spiega che lo conosce «più di ogni altro». Méryon prosegue, imperterrito. Chiede a Baudelaire se crede «alla realtà di quell’Edgar Poe». Baudelaire domanda, interdetto, a chi altrimenti «attribuiva tutti i suoi racconti ». Méryon: « A una società di letterati molto abili, molto potenti e al corrente di tutto ». Poi continua ad argomentare, secondo i suoi imperscrutabili criteri.
Quando si separarono, Baudelaire si era reso conto di aver parlato con qualcuno che viveva stabilmente in una terra inavvicinabile: «Quando mi ha lasciato, mi sono chiesto come mai io, che ho sempre avuto, nella mente e nei nervi, tutto quel che occorreva per diventare pazzo, non lo sia diventato. In tutta serietà, ho rivolto al cielo i ringraziamenti del fariseo».
Negli accaniti ritocchi alle sue liriche, fino all’ultimo Baudelaire si batteva con le maiuscole.
Su un foglio di bozze si appellava a Poulet- Malassis: «Amo le maiuscole; ma in questi casi che ne pensate?». I tentennamenti erano innumerevoli. Introdurne di nuove? Eliminarne? In quei dubbi tenaci Baudelaire rivelava la novità del suo gesto. La maiuscola che segnala una personificazione è un procedimento antico, prediletto dai barocchi. E Baudelaire vuol quasi sottolineare questa discendenza, innanzitutto per via della sua inclinazione per l’allegoria. Ma, osservando da vicino le oscillazioni, da una stesura all’altra, si nota che le entità maiuscolizzate vanno ben oltre il repertorio barocco. Accanto ai nobili astratti, accanto alle passioni e ai sentimenti si fanno avanti gli oggetti – talvolta invadenti. Viene il sospetto che Baudelaire abbia bisogno delle maiuscole come Balzac del pullulare dei suoi personaggi. une Madone maiuscolizza ceri, scarpe di seta, lacrime, vapori, coltelli . Questi ultimi subito antecedenti al cuore dove vanno a conficcarsi. Ma tutta la lirica è sovraccarica e si presenta come «un ex voto in stile spagnolo». Più sottile e sconcertante il procedimento nel Crépuscule du soir . Qui si assiste a una vasta sostituzione delle maiuscole. Alcune, che spiccavano nella prima stesura, finiscono nel testo stampato come minuscole: così il verme , il gioco , l’ ospedale , l’ anima . Ma, all’inverso, alcune minuscole vengono innalzate alla maiuscola nell’ultima stesura. Che cosa rimane alla fine? La Prostituzione ,
l’ Uomo , la Notte . Un’oscura e coerente elaborazione conduce al risultato. I suoi criteri possono variare da poesia a poesia. In questo caso si direbbe che Baudelaire voglia ricondurre il crepuscolo al suo triangolo essenziale. Ma altrove il procedimento potrebbe essere diverso. Costante è solo l’importanza attribuita alle maiuscole, come a una tastiera segreta, che si lascia percepire ogni volta in modo imprevedibile – e sempre espande i suoi registri fino a coincidere, in rari momenti, con l’insieme di ciò che è. In quei momenti, scrisse Baudelaire, «tutto per me diventa allegoria». La riprova, al negativo, si ha nel fatto che, quando una visione è solo allegoria, le maiuscole scompaiono, ormai superflue. Da una lettera a Calonne, editore di Baudelaire nell’occasione: « Danse macabre non è una persona, è un’allegoria. Mi sembra c he non ci debbano essere maiuscole ».
Baudelaire non aveva talento di autore drammatico. Ma più volte fu tentato dal teatro, soprattutto come miraggio di rapidi guadagni. Nel gennaio 1854 Hippolyte Tisserant, celebre attore dell’Odéon, gli lanciò una di quelle proposte. Baudelaire gli rispose con una lunga lettera dove innanzitutto prendeva l’occasione per chiedere soldi in prestito. Ma poi, come prova di buona volontà, stendeva una traccia di quel che sarebbe dovuto diventare «un dramma altamente melanconico basato sulla fantasticheria, la fannullaggine, la miseria, l’ubriachezza e l’assassinio ». Procediamo nella lettura e, quasi inoltrandoci in una allucinazione, ci rendiamo conto che stiamo seguendo una storia parallela e tremendamente affine a quella del Wozzeck di Büchner. Che all’epoca non era ancora stato rappresentato in teatro, a quasi vent’anni dalla morte dell’autore, e avrebbe ancora atteso a lungo un’affidabile edizione a stampa. Impossibile dunque che Baudelaire conoscesse quel testo. Eppure, come spinto da un possente magnete, Baudelaire aveva individuato una materia drammatica che presentava a Tisserant con parole spesso adattabili anche al Wozzeck . Intanto la fonte: come per Büchner, un caso di cronaca nera. Poi l’ambiente. Baudelaire: «La mia preoccupazione principale, quando ho cominciato a fantasticare sul mio soggetto fu: a quale classe, a quale professione deve appartenere il personaggio principale? – Con decisione ho adottato una professione pesante, triviale, rude. IL SEGATORE DI ASSI». Poi ci vuole una canzone «orribilmente melanconica» (come nel Wozzeck ). Poi il dramma: «Questo segatore di assi così amabile finisce per gettare sua moglie nell’acqua » (come nel Wozzeck ). Il motivo? «Ubriachezza e gelosia ». Soprattutto: impossibilità di sopportare l’innocenza della donna. Il delitto: nel Wozzeck c’è un bosco e uno stagno sinistri; nel dramma di Baudelaire: «Strada o pianura buia. – In lontananza, suono di un’orchestra di balera. – Paesaggio sinistro e melanconico dei dintorni di Parigi. Scene d’amore, – il più possibile tristi, – fra quest’uomo e sua moglie». In Büchner, Wozzeck uccide la moglie a coltellate subito dopo averla carezzata. In lontananza, musica di osteria. Poi Wozzeck getta il coltello nello stagno. In Baudelaire, il segatore lascia annegare la moglie in un pozzo «quasi a fior di terra». Le somiglianze con Büchner investono anche la forma. In un poscritto a Tisserant, Baudelaire scrive: «Sarei ben disposto a dividere l’opera in vari quadri corti, invece di adottare la scomoda divisione dei cinque atti lunghi». Ciò che Baudelaire suggerisce è ciò che Büchner aveva già compiuto – efa del Wozzeck il primo, oltre che il più grande, dei drammi espressionisti.
Infine: perché il delitto accade? Perché è «un’atrocità senza pretesto», secondo Baudelaire. E la vera differenza, dove splende il genio drammaturgico di Büchner, sta nel fatto che Wozzeck non ha bisogno di essere un alcolizzato, come il segatore di assi di Baudelaire: Wozzeck uccide perché qualcosa lo spinge a uccidere: un marasma insanabile. Era questa – aggiungeva Baudelaire – la sfida più difficile: far capire il delitto. E aggiungeva: «Tenete presente inoltre che il pubblico dei teatri non ha familiarità con la sottilissima psicologia del crimine ». Di ciò, appunto, trattavano Büchner – e Baudelaire. Tutti e due sembrano aver avuto la visione di una stessa materia drammatica, dotata di una vita propria , che aspettava soltanto loro per manifestarsi. Ma non tutto era pronto. Ci sarebbe voluto ancora un lungo periodo di latenza prima che il Wozzeck deflagrasse alla luce e nel suono dell’orchestra di Berg. Per Baudelaire quel progetto di dramma sarebbe rimasto come una fra le tante «belle occasioni» che era abituato a perdere.