Franco Cordero, la Repubblica 10/9/2009, 10 settembre 2009
L’ETICA DEL FRATE CHE ODIAVA IL GRANDE TIRANNO
La lettura di Franco Cordero
Il despota governa malissimo, premia i malfattori, attorno vuole solamente servi o adulatori
Il domenicano resiste finché il pontefice decide che è il momento di regolare i conti
Pubblichiamo una parte del testo che leggerà al Festival di Mantova sabato 12. In questi giorni torna in libreria la biografia in quattro volumi che Cordero ha dedicato a Savonarola (Bollati Boringhieri, euro 75), con una nuova introduzione dell´autore.
Cosa significhi "tiranno", lo racconta Savonarola nel Trattato sul reggimento di Firenze, chiesto da Giuliano Salviati, Gonfaloniere dell´ultima Signoria favorevole, inverno 1498: tre dissertazioni, ciascuna in tre capitoli; qui interessa la seconda terna. Primo capitolo: perché il governo monocratico, perfetto sotto un capo buono, risulti «pessimo tra tutti li cattivi governi», se cade in mani sciagurate. Il secondo muove da una battuta icastica: «tiranno è uomo di mala vita»; «sopra tutti vuole regnare», tanto più funesto se viene dal basso. Vuol essere l´unico, calpestando i valori effettivi: quindi è invidioso; patisce le fortune altrui, «benché molte volte dissimuli»; «vorria che ogni uomo fussi vituperato», affinché «lui solo restassi glorioso». In preda a «fantasie, tristizie e timori», cerca sollievo nei divertimenti lussuriosi: è caso raro, forse impossibile, un tiranno che non li pratichi; e siccome tali passatempi costano, «seguita che inordinatamente appetisca la roba», ingordo senza fondo, «avaro e ladro». Tale immoralità implica «virtualmente tutti li peccati del mondo». Primo, perché superbia, lussuria, avarizia sono radice d´ogni male. Secondo: «avendo posto el fine suo» nel potere dispotico, non v´è scelleratezza davanti a cui esiti, se vede pericoli. Terzo, corrompe i sudditi, «onde sèguita che ogni parte dell´anima sua sia depravata»: non ha simpatie; «lo intelletto sempre adopera a machinare fraude e inganni»; vendicativo, malevolo, agitato da «perversi desideri», spende il tempo in «concupiscenze o detrimento e derisione del prossimo». Non può liberarsi dell´aculeo, avendo «posto el fine suo in tale stato che è difficile, anzi impossibile (...) mantenerlo longamente»; «niuno violento» dura a lungo, quindi dev´essere «molto vigilante». Il fine perverso gl´inquina ogni atto: pensa, ricorda, immagina, fa soltanto cose cattive, «come el diavolo, re delli superbi»; e sotto finte pose costumate riesce ancora più perfido.
L´analisi continua sul filo d´un freddo acume. «El tiranno» governa malissimo: la sua regola è che i sudditi «non intend[a]no cosa alcuna (...) o pochissime», irrilevanti; ministri, consiglieri, familiari, stiano in perpetua discordia, e nessuno emerga nel paese. Attira lo scherno sui savi: vuole solo servi intorno; sospetta complotti; dissemina «esploratori e (...) spie». Mediante «spettaculi e feste» aliena i sudditi dalla politica. Ha bisogno d´adulatori, teme la verità, non tollera i discorsi seri. Ogni tanto simula gesti benevoli verso gl´indifesi: vanta come opera sua «onori e dignità?» distribuiti ai cittadini; mima dissenso dalle decisioni impopolari. Compra i favori delle autorità religiose, mietendo profitti anche lì. Spesso «abbassa occultamente» dei notabili, poi li restaura affinché gli siano obbligati, posando a «clemente e magnanimo». Appende le sue insegne nei palazzi e templi edificati col denaro pubblico. Lo celebrano cantori e musicanti. Finte guerre gli consolidano il potere. Alleva nullità che dipendano da lui perinde ac cadavera. Lucra dappertutto: spoglia «vedove e pupilli fingendo di volerli defendere»; espropria campi e case dei poveri, destinandoli all´urbanistica amena, con la promessa d´un «giusto prezzo e poi non ne paga la metà», avaro persino col personale domestico; dev´essere una grazia servirlo. Paga gli sgherri con la roba d´altri, mediante uffici o sinecure immeritati. Guai al mercante i cui affari vadano troppo bene, fallirà. Esalta i malfattori che senza il suo scudo «seriano puniti», affinché lo difendano difendendosi: se assume «qualche uomo savio e buono, lo fa per dimonstrar[si] al popolo (...) amatore della virtù»; ma non se ne fida, quindi gli «tiene l´occhio ad[d]osso». «Ha li suoi satelliti in ogni luogo»: notano «per inimico» chiunque stia fuori del coro plaudente; cercano reclute «sviando li giovani etiam contra li padri»; l´implicato «nelli suoi malvagi consigli» consuma «la roba in conviti» o «altre voluttà» (allusione ai Compagnacci, gioventù dissoluta), così «divent[a]no poveri e lui solo riman[e] ricco».
Gli passa in mano ogni minimo impiego, «insino alli cuochi del palazzo e famigli de´ magistrati»: normalmente sceglie i peggiori; non viene decisa o transatta causa senza che vi metta becco; «con astuzia» corrompe le leggi «contrarie al suo governo iniusto», e se ne combina continuamente ad personam; in ogni magistratura qualcuno gli riferisce gl´interna corporis o bisbiglia ordini. Ha paura della sua ombra, crudele nelle vendette. Chi ne parli senza genuflettersi fa bene a nascondersi, «perché lo perseguita etiam nelle estreme parti del mondo»: è anche omicida per «rimuovere li ostaculi [al] suo governo»; finge ira verso l´esecutore manuale, minaccia pene, «poi lo ripiglia e tienlo appresso». Vuole il primato in tutto, giochi, arte della parola, corse ippiche, dottrina. «Schernisce li uomini da bene», ridendo col servidorame complice. Nei tribunali un suo biglietto o la parola d´uno staffiere valgono più d´«ogni iustitia». «Insomma, sotto el tiranno non è cosa stabile»: ruotano secondo una volontà mossa dalla passione; «onde ogni cittadino (...) sta in pendente». Superbo, avaro, lussurioso, insidia prestigio, patrimonio, pudore femminile. Tiene dappertutto ruffiani e ruffiane, li quali [in] diversi modi le donne e figliuole d´altri conducono alla mazza, massime nelli conviti», attraverso «vie occulte». «Seria longa cosa» esporre tutti i peccati del tiranno. Stavolta fra´ Girolamo appare autentico profeta. Il ritratto evoca una fin de siècle quattrocentesca, dove l´eroe negativo (lodato da Machiavelli) è Cesare Borgia, figlio del papa, ancora cardinale Valentino, prossimo duca del Valentinois: da allora molte cose sono cambiate ma essendo l´Es una bestia fuori del tempo, qualche particolare sembra disegnato ieri; se li discerna l´osservatore equanime.
Abbiamo sotto gli occhi due vite: una chiusa in piazza della Signoria, mercoledì mattina 23 maggio 1498; l´altra, trionfalmente aperta. Il Frate inerme resiste finché un papa poco presentabile regola i conti: vengono due commissari con la condanna a morte in tasca; giocava parti temerarie dichiarandosi mediatore cielo-terra familiaris cum Deo. Saltano all´occhio difetti e lati pericolosi (avesse mano libera, l´esito sarebbe una servitù teocratica). Nei momenti alti è agonista ammirevole: gli avversari valgono assai meno; trova sèguito in una borghesia povera, sensibile alla corda morale; ha commesso gravi errori e soccombe, troppo diseguale essendo la partita, ma lascia esempi nel paese delle anime assopite. Peccato che un´agiografia senza scrupoli, d´insopportabile cattivo gusto, gli tolga l´aspetto umanamente migliore, autentico, emerso dalle confessioni nei due processi.
Re Lanterna, chiamiamolo così, non sale dall´inferno né cade dal cielo, meteorite maligno. L´Italia lo portava nei cromosomi: viene su dal niente, attraverso rapporti oscuri; inter alios l´hanno covato P2, Gelli, Craxi, Amato, Mammì, Andreotti, D´Alema (i cui funesti giochi bicamerali gli salvano le aziende, "patrimonio italiano", consolidando la neoplasia d´un conflitto d´interessi talmente aberrante che gli stranieri domandano come sia tollerato). Trent´anni d´ipnosi televisiva lasciano effetti indelebili. Gli organi del pensiero erano vivi in strati sociali appena acculturati, vedi l´ironico dissenso dal carnevale guerriero fascista. Adesso tiene banco la volgarità rissosa: riscuotono applausi battute turpiloque; nei duelli televisivi strida, borborigmi, latrati sostituiscono gli argomenti; vince chi impedisce l´uso della parola. Questo salto in basso esaspera difetti antichi. L´uomo dissecato da Guicciardini è egoista, alieno dai rischi, rispettoso dell´autorità, quindi va in chiesa sebbene creda poco o niente, bienséant, giudizioso nei limiti del «particulare»; talvolta ha gusto fine. Ipocrisia controriformistica, Arcadia, servilismo cortigiano, mestieri legulei, anime fiacche sono compatibili col fasto barocco. L´attuale prassi alleva proterva volgarità plebea, coniugata all´ignoranza. Grosso fenomeno, sarà ricordato nelle storie. Alcuni aspetti ripresentano l´uomo della Controriforma. Ad esempio, indicano una giustizia intimidita le attenuanti generiche benevolmente concesse, grazie alle quali schiva gravi condanne, risultando estinti dal tempo i delitti. S´era proclamato immune e il Quirinale promulga la relativa legge. Non gli fa caldo né freddo la condanna dell´avvocato David Mills: l´aveva corrotto perché dichiarasse il falso, accerta un tribunale; manovali ad legem ferendam ne studiano una che vieti l´uso delle prove moleste nell´eventuale futuro giudizio. Gerarchie ecclesiastiche cavano profitto dal regno d´un lugubre edonismo. Insomma, è demiurgo: diamogli atto d´avere inciso nel genoma collettivo; gli effetti regressivi, manifesti, cresceranno passando gli anni; immoralismo, sonno intellettuale, arte dello spegnitoio, furberia parassitaria conducono all´inferno nello scramble d´un pianeta il cui mercato va diventando affare terribilmente serio.