Claudio Camarca, l’Unità 8/9/2009, 8 settembre 2009
APPARIRE, CHE FATICA
Questo è il mondo che spinge e salta e corre e ingolla acqua demineralizzata per eliminare le impurità e idratare la pelle. il microuniverso dei seguaci di Sisifo. I forzati del muscolo. Gli ultimi resistenti in una Roma svuotata arruolati a fine giornata nel catino riarso di MondoFitness, spazio giochi per adulti delimitatodaun cavalcavia della tangenziale e una storica arteria periferica ingentilita da puttane sessantenni. Cani abbandonati e pratacci duri e nuvole di polvere sollevate a sbuffi. In queste lande, hanno pensato di inchiodare i tossici del fisico scolpito. Gli schiavi del muscolo pompato. I musulmani inebetiti e radiosi sacrificati alla body sculpture. Ogni età possibile è scrupolosamente rappresentata. Dai venti ai settanta anni e oltre. Fino all’ultima stilla di sudore. L’ultimo rantolo di gloria. Ci sono le madri con il figlio parcheggiato in carrozzina, sballottato dalle percussioni tekno, che tra una poppata e l’altra salgono e scendono settanta volte sette il gradino dell’aria step. C’èlatruppadi ciclisti del posto fisso, disidratati dalla fatica mentre arrancano per ore lungo una salita immaginaria descritta dall’instancabile istruttrice/istitutrice di spinning estremo, scarnificata come la mummiadi Similaunmadi questa più pallida, trasparente, le giunture in rilievo, la voce metallica nel microfono attraverso cui detta i tempi della rampicata, i battiti cardiaci, le pulsazioni al minuto. E gli adepti, dietro. A spingere i pedali in piedi sul sellino. Ebbri di sofferenza e note musicali che simili a fili per marionette li portano più avanti, oltre la soglia di percezione della stanchezza, dentro il comasportivo fatto di esaltazione e lacrime, labbra secche, narici dilatate, pozza di sudore in cui annegare la cyclette. Esimili auna eco proveniente dall’antica Grecia, ecco i maratoneti del tapis roulant. I-pod e bottiglia d’acqua minerale e cardio frequenzimetro al polso. Lanciati chilometro dopo chilometro. L’identico paesaggio davanti e intorno. Sbuffano, digrignano, sbavano, sorseggiano, si asciugano, aumentano velocità e pendenza. Cinquanta minuti a 170 battiti cardiaci. Guance incavate, maglietta incollata alla schiena, braccia aggrappate al passamano. Corrono. Corrono e pedalano. Restando piantati tutti al proprio posto. La libertà dell’uomo occidentale è avanzare nelle sabbie mobili. Zanzare a sciami investono i fari alogeni. Le frequenze sotterranee dei sub-woofer arpionano i corpi dei dannati dello step. Settanta tra uomini e donne. Immolati nella ricerca di perdere peso. Su e giù dal maledetto gradino. Milioni di volte. Battendo il tempo con le mani, applaudendosi, incitandosi. Cercando disperatamentedi sorridere alle battute deidue istruttori/ kapò. Annullando lo sforzo, cancellando la stanchezza, protesi tutti verso un universo liberato dalla materia, etereo, puro spirito leggiadro, la ricerca della piuma di Forrest Gump. L’insostenibile leggerezza dell’essere impersonata oltre che dal pensiero anche dal corpo divenuto orpello, ancora, effige della vita e perciò stesso della morte. Realtà inconcepibile, irricevibile, da prendere e buttare nel cassonetto dei rifiuti e non pensarci più. Ondate di sudore si levano nel cielo. Le madri riprendono i figli al seno. Atleti da dopolavoro attraccano finalmente alle docce e qui svengono. Ragazzotti, (un tempo si sarebbe detto di belle speranze), vagano sbirciando glutei tonici e cosce lucide, dandosi col gomito, ridacchiando spenti e un poco malinconici. Gli ansiti che arrivano filtrano pesanti dall’area della palestra dedicata al body building. Qui, la gran parte sono uomini. Impegnati nel sollevare manubri da venti e trenta e quaranta chilogrammi. Supini sulla panca nel momento della preghiera innalzata al dio del ferro e del sangue raggrumato. Discepoli della mistica della forza. Ipnotici nelle infinite ripetizioni. Le braccia che pompano, il petto rosso fuoco irrorato di sangue, le vene come cavi, i capillari che esplodono, quadricipiti femorali simili a quarti di bue, dorsali avvolgenti come la livrea di un boa. Uomini che vogliono farsi statue. Costruiscono il proprio corpo in barba e in sfregio alla volontà di Dio. Edificano una figura lanciata a occupare lo spazio intorno. Colmare un vuoto. Armano bilancieri con pizze da venti chili l’una. Cinque per lato. Destra e sinistra. E si schiacciano sotto. E tirano su. Una, due, cinque, dieci, quindici ripetizioni. A sentire le giunture stridere, i legamenti indurirsi come corde, i muscoli vibrare, tremare, flettere, spruzzare sudore ghiacciato lungo la schiena, brividi diacci che battono le tempie come martellate. I ragazzotti un tempo di belle speranze li osservano con stupore e sgomento e stolida venerazione. Questi orchi moderni. Uomini scolpiti con siringhe anabolizzanti e flaconi di Ghsucchiati dalla corteccia surrenale dei cadaveri. Uomini alimentati a viagra e testosterone e dyanabol e winstrol. Uomini che prendono la vita alla giornata, così da essere soddisfatti se si arriva fino a sera, si finisce l’allenamento senza infarto, i testicoli funzionino quel tanto da poter procreare. Tutto per essere grandi. Colossi di Rodi in carne e ossa. Guerrieri delle Termopili schierati davanti a una discoteca, o ringhianti di fianco a un VIP da rotocalco. Semidei atei espiantati dallo Stadio dei Marmi e noleggiati a gettone per la passerella momentanea di un regnante da seconda serata. Afferrano i manubri e pompano metallo nelle vene. Immolati al cancro, all’osteoporosi, all’artrite reumatica, al dissolvimento dei menischi schiantati dallo squat. Tutto pur di strappare uno sguardo al passante. Esistere nel mondo per lo scoccare d’una occhiata. Trovare la propria dimensione sulla terra, prima che la sera romanalambita dal ponentino suadente si faccia notte priva di stelle.