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 2009  settembre 09 Mercoledì calendario

NEI CONTI DEGLI STILISTI SFILANO I DEBITI - A

due settimane dal via, il calendario delle sfilate di Milano è ancora in fase di definizione. Le bizze degli stilisti regnano sovrane perché la crisi finanziaria internazionale non risparmia affatto il luccicante mondo della moda. L’improvvisa "scoperta" – si fa per dire – che lunedì 28 si celebra la festività ebraica dello Yom Kippur ha provocato un fuggi-fuggi da quella giornata. Si rischia che importanti compratori e giornalisti siano in sinagoga anziché seduti in prima fila: a farne le spese saranno i marchi meno famosi, sui quali si sono disinvoltamente sovrapposti i defilé di alcuni big.
L’atmosfera è pesante a causa del crollo dello shopping: ovunque nel mondo, tranne in Cina e in altre economie asiatiche emergenti, i clienti della moda e del lusso non sono più disponibili a spendere cifre oggi ritenute incongrue rispetto al valore intrinseco di scarpe, borse e abiti griffati.
Così, i protagonisti del settore stanno gestendo la fase forse più delicata della propria storia aziendale. Peggiore delle già spinose difficoltà vissute con la crisi asiatica del ’98, con l’11 settembre e con la Sars del 2003.
Troppi hanno fatto il passo più lungo della gamba, immaginando un futuro per sempre roseo come negli ultimi anni, con tassi di crescita da primato per le vendite e i margini. Nessuno poteva immaginare che la recessione fosse di nuovo dietro l’angolo.
Non solo. La bulimia da acquisizioni fatte a debito, con i multipli alle stelle dei periodi d’oro, ha provocato sconquassi a non finire nelle casse di diverse aziende, costrette a vendere i marchi dopo avere perso quattrini a palate e a riscadenzare i debiti attraverso piani impegnativi anche per le banche. Mentre per aprire boutique faraoniche nelle vie più prestigiose i costi sono schizzati alle stelle, a causa del pagamento di buonuscite che possono arrivare a 40 milioni di euro per singolo negozio. E la cui redditività al metro quadro non soddisfa quasi mai sani criteri di economicità.
L’eccezione di Armani
Ovviamente non tutte le maison sono in difficoltà finanziarie: un caso virtuoso resta Giorgio Armani, che ha appena 43 milioni di debiti e ben 370 milioni di liquidità netta in cassa (dopo averne investiti 170). L’azienda, che come tutte le griffe subirà una riduzione della redditività a fine 2009, resta insomma un benchmark. Tanto che ad Armani (1,6 miliardi di ricavi consolidati nel 2008) continuano ad arrivare manifestazioni d’interesse – i rumors si stanno accentuando nell’ultimo periodo – da parte di grandi gruppi: si sussurra di Lvmh, leader mondiale del lusso, di Ppr, che controlla Gucci Group, e del colosso della cosmesi l’Oréal, che con lo stilista di via Borgonuovo ha una solida partnership nei profumi e nel make-up da 700 milioni di ricavi l’anno. A proposito di stime, gli addetti ai lavori stimano in 3,5 miliardi il valore della Armani: un multiplo Ev/Ebitda di 11,5, alto ma riconosciuto per l’eccezionalità del caso.
I casi critici
Chi invece è in piena bufera è Mariella Burani Fashion Group, quotato alla Borsa italiana (ma sospeso dalle contrattazioni). L’azienda, dopo aver deliberato un aumento di capitale da 100 milioni di euro, è al centro di una dura trattativa con le banche per la rinegoziazione del debito:a fine giugno la società aveva un’esposizione verso il sistema bancario di 478 milioni. Gli ultimi dati semestrali del gruppo sono impietosi: perdita a 142 milioni, patrimonio netto negativo e dubbi sulla continuità aziendale che potrebbe colpire, a cascata, i numerosi marchi prodotti su licenza dal gruppo emiliano.
La crisi di Burani arriva pochi mesi dopo lo stato d’insolvenza della It Holding di Tonino Perna, costretta a ricorrere alla legge Marzano: un fulmine a ciel sereno per il settore, malgrado le difficoltà finanziarie fossero note da tempo agli addetti ai lavori, che ha messo in ginocchio i fornitori e la rete di terzisti. Ora sul gruppo pendono due inchieste: una della Procura di Isernia che punta a verificare eventuali reati societari e un’altra della Procura di Milano che indaga su un presunto aggiotaggio.
Molti problemi sembrano in via di soluzione, anche se si profila il ricorso alla cassa integrazione. Ma Stanislao Chimenti, Andrea Ciccoli e Roberto Spada, i tre commissari straordinari di It Holding, sono riusciti a ottenere lo slittamento al 10 novembre della presentazione del piano di riassetto al ministero dello Sviluppo economico: la data era in precedenza fissata al 12 agosto. Le priorità? Contenimento dei costi e rilancio delle licenze.
Sotto il controllo dei commissari, sono stati inseriti nuovi top manager (il direttore generale Massimo Suppancig e Antonio Arcaro, che ha la supervisione della parte industriale di Ittierre) che procedono nell’opera di risanamento. Complessivamente, i commissari hanno tagliato 47 milioni di euro: 9 milioni di costi pubblic itari (con minori investimenti sui media, una riduzione delle spese sulle sfilate a parità di eventi, una riduzione delle consulenze, un taglio dei contratti a termine e una riduzione dei cataloghi), 17 milioni di costi di campionari, prototipi e ripetizioni, 21 di costi di struttura.
Nel frattempo sono giunte manifestazioni d’interesse sia per il gruppo nel suo complesso sia per singoli asset: una decina i contatti con gli advisor Sin&rgetica di Bruno Ermolli e Mediobanca. Secondo i rumors guarderebbe all’intero perimetro d’attività Alpha Group, il fondo francese guidato in Italia da Edoardo Lanzavecchia. Investitori del Medio Oriente e gruppi indiani scenderebbero invece in campo per la griffe Ferrè: in pole position la famiglia indiana Mittal affiancata al fondo di private equity Change Capital, ma anche la Investcorp (matrice araba, sede europea a Londra, quartier generale nel Bahrein), nota per avere effettuato in passato il turnaround su Gucci.
In teoria, il piatto più appetitoso sarebbe appunto il brand Gianfranco Ferrè che, dopo la scomparsa del fondatore, è affidato al duo Tommaso Aquilano e Roberto Rimondi. Ma anche per questo prestigioso marchio made in Italy è la modesta redditività a frenare l’appeal.
Dove pesa la finanza
Un caso diverso è quello di Valentino Fashion Group, che controlla tra l’altro i marchi Hugo Boss e Valentino, il caso più eclatante di leverage buyout del private equity sulle aziende del settore. Pagato da Permiraa peso d’oro – 2,7 miliardi di euro, il record nel mondo della moda – il gruppo, che ha subìto il delisting, ha svalutato marchi e avviamento per 498 milioni nel 2008 e ha così chiuso il bilancio con un deficit di 483 milioni (contro un utile di 29 nell’esercizio precedente): cioè un quinto del valore dell’intero giro d’affari, che viaggia sui 2,2 miliardi. Gli oneri finanziari sono triplicati a 193 milioni. Ma la perdita sarebbe stata ancora più pesante, se non fossero intervenuti benefici fiscali per 52 milioni. La gestione industriale, però, resta positiva per 248 milioni ( erano 266 nel 2007).
Anche Prada deve fare i conti con la finanza. Malgrado la crisi, il gruppo milanese è riuscito ad attutire meglio di altri la pressione del debito e ha recentemente riscadenzato circa 450 milioni di euro di debiti collocati nella holding delle famiglie Bertelli-Prada: 100 milioni che sarebbero scaduti il 31 luglio e 350 milioni in scadenza nel luglio del prossimo anno, spostati nel 2012. Come dire: la griffe può guardare al suo futurodi crescita anche senza i capitali della quotazione che, congelata per la terza volta dalla crisi dei mercati, resta una delle opzioni future.
Tuttavia la società deve fare i conti con un piano di investimenti di ingenti dimensioni a livello internazionale e con nuove aperture di negozi. Come accaduto anche ad Armani e Ferragamo (che pure ha congelato l’attesa quotazione), la sostanziale stabilità dei ricavi è stata assicurata dall’apertura di un numero massiccio di boutique (una cinquantina per ciascuno dei tre marchi, il che ha modificato non poco il perimetro dei conti). Basteranno l’autocapacità di generare cassa e il nuovo ossigeno concesso dalle banche con la rinegoziazione del debito?
Inoltre, non è escluso che il gruppo guidato da Patrizio Bertelli e Miuccia Prada debba "digerire" l’ingresso nel Cda di altri rappresentanti delle banche. Gli stessi istituti di credito, fino a qualche mese fa, sembravano auspicare l’ingresso in Prada di un investitore con una quota di minoranza. Il dossier Prada è stato infatti esaminato con interesse da diversi soggetti: dal numero 2 nel lusso, gli svizzeri di Richemont, fino al fondo sovrano del Qatar, l’ultimo della lista a presentarsi per acquisire una minoranza. Ma per ora le porte restano chiuse, visto che Bertelli e Prada non sono disposti a vendere alcuna partecipazione nell’azionariato.