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 2009  settembre 09 Mercoledì calendario

LA MIA VITA IN VOLO PER FERMARE I ROGHI"


Ci sono persone che prendono il numero dell’aereo e ci telefonano per ringraziarci: avete salvato la nostra casa». Ecco, decine di genovesi oggi dovrebbero chiamare Pietro Nuzzo e i suoi colleghi. Se non ci fossero stati loro, i piloti dei Canadair e degli elicotteri, la notte scorsa molti invece di rientrare a casa si sarebbero trovati davanti un mucchio di pietre fumanti.
Pietro scrolla le spalle. Si beve un caffè a due passi dalla pista dell’aeroporto. In mano ha il telefonino, da un momento all’altro potrebbero richiamarlo in volo. Nuzzo ha 64 anni, un’età in cui la maggior parte dei suoi coetanei sono in pensione, eppure lui, fisico asciutto, tuta bianca immacolata, non ne vuole sapere di smettere di volare: «Quando sono lassù mi sento felice», racconta dopo le prime tre ore di servizio: 35 ammaraggi e altrettante picchiate sul fuoco. E’ tranquillo come se lo aspettasse una passeggiata, invece sta per tornare in mezzo a muri di fiamme e fumo. Non è un pazzo temerario. In Italia - e non solo - nessuno ha altrettanta esperienza con i Canadair: venticinque anni di voli negli incendi.
Pietro parla volentieri del suo lavoro, ma non gli va di fare l’eroe. Eppure è una di quelle rare persone per cui questa parola non suonerebbe retorica. «Il nostro non è un mestiere pericoloso, voliamo su apparecchi sicuri e ben tenuti», si schermisce. Ma, se insisti, racconta: «Una decina di volte me la sono vista brutta». Poi chiude gli occhi come se non volesse rivedere davanti a sé quelle immagini che ha stampate in mente: «Un giorno, proprio a Bogliasco, dove ho volato oggi, i cavi di una teleferica mi hanno tranciato un pezzo di ala. Se avessero colpito il timone di coda...». Lui è stato tra i primissimi piloti di Canadair in Italia, gli altri li ha conosciuti tutti. Qualcuno manca all’appello: «In venticinque anni abbiamo perso otto amici», sussurra e un velo gli appanna gli occhi. «Mi ricordo a Savona, nel 1989. Davanti a me c’erano due ragazzi bravissimi, il loro aereo scomparve nelle fiamme. Il giorno dopo ci toccò volare per spegnere l’incendio provocato dal Canadair precipitato». Già, la regola numero uno per questi piloti è non fermarsi. Via, anche se sono morti due amici.
Intanto suona il telefono: «Arrivo», risponde Pietro. «Questo incendio di Genova è uno dei più brutti che ho incontrato», racconta. Dopo mezzora il suo Canadair punta il muso verso il mare e apre la pancia per caricare sei tonnellate d’acqua. Ma il momento più difficile deve ancora venire: «L’aereo carico sale lentamente, si muove con meno agilità. Voliamo a cinquanta metri di altezza, a quasi duecento chilometri all’ora. Basta una frazione di secondo per essere nei guai», spiega Nuzzo. E poi c’è il fumo: «Regola numero uno, mai entrare nel fumo. Bisogna avere coraggio, ma anche sapersi fermare». All’improvviso potresti trovarti davanti un albero, una roccia, ma soprattutto dei cavi: «Sono i nostri peggiori nemici, e pensare che molti non sono segnalati, come i tralicci». Poi ci sono gli altri aerei, gli elicotteri. Ieri sopra Nervi si incrociavano 4 Canadair e 2 elicotteri. Macché radar, qui si fa tutto con il volo a vista. Non puoi permetterti di perdere d’occhio i compagni di volo neanche per un secondo. Intanto sotto di te sfrecciano alberi, monti, cavi.
Pietro è lassù che vola. A terra centinaia di persone guardano l’aereo che spegne il fuoco vicino alle loro case. Ma non sanno niente di Pietro, di sua moglie Patrizia e dei due figli che lo aspettano. Di Pietro che scarica tonnellate d’acqua per dare il colpo di grazia alle fiamme. Nuzzo ha vissuto così ottomila ore, un anno di vita. Ma perché lo fanno, lui e i 90 piloti di Canadair? Non per lo stipendio, da duemilacinquecento a cinquemila euro. Tra la gente che sta sotto di loro a guardare tanti guadagnano molto, molto di più.