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 2009  settembre 09 Mercoledì calendario

LE BANCHE NON DEVONO ESSERE BUONE


A sentire le loro dichiarazioni sulle responsabilità delle banche nella crisi, si potrebbe pensare che Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi non appartengano allo stesso governo. Domenica a Cernobbio Tremonti - che ha anche puntato il dito contro i banchieri a livello mondiale, addossando loro la responsabilità principale della crisi - ha accusato, con notevole pesantezza, i banchieri nazionali di non fare gli interessi del Paese, tra l’altro per la loro riluttanza a sottoscrivere i cosiddetti «Tremonti bonds».
Una forma di finanziamento pensata per i salvataggi delle imprese che, nelle mutate condizioni di oggi, può risultare relativamente cara e poco maneggevole. Ieri a Milano, Berlusconi ha invece preso una posizione diametralmente opposta, asserendo che non si può dare la croce addosso ai banchieri, che «solo una percentuale minima di imprese non ha ricevuto risposte dal nostro sistema bancario» e che, poiché si utilizzano i soldi dei risparmiatori, non bisogna fare del «cattivo credito».
Più che una vera e propria spaccatura, contrasti d’opinione così plateali segnalano sicuramente una certa confusione di idee e l’assenza di riferimenti intellettuali forti sui quali impostare la strategia economica. Non si tratta di un problema soltanto italiano: in maniera più discreta, differenze non dissimili stanno venendo a galla, tra i governi e dentro i governi dei Paesi del G20, a due settimane dalla riunione di Pittsburgh. Questa riunione non dovrebbe limitarsi a raggiungere un faticoso accordo su qualche tecnicismo ma dovrebbe definire una linea comune nei rapporti tra mondo politico e finanza, essenziale per evitare il ripetersi di crisi distruttive. Non sembra che nessuno, compresi naturalmente Berlusconi e Tremonti, abbia idee precise su come ciò andrebbe fatto mentre tutti guardano con preoccupazione a un possibile ulteriore indebolimento dei consumi, soprattutto negli Stati Uniti, sotto il peso dell’aumento del numero dei senza lavoro.
Il divario di opinioni tra Tremonti e Berlusconi va quindi interpretato, prima di tutto, come la variante italiana della confusione e della carenza mondiale delle idee su questo punto fondamentale. Vi sono però particolarità italiane che richiederebbero maggiore coordinamento a livello di governo e anche un maggiore apporto dell’opposizione. Mentre infatti negli altri Paesi ricchi, con pochissime eccezioni, gli Stati hanno relativamente poco debito mentre le famiglie sono relativamente molto indebitate, in Italia succede il contrario: lo Stato italiano è tra i più indebitati (in rapporto al prodotto interno lordo), mentre le famiglie italiane hanno pochi debiti e consistenti saldi attivi e le imprese (le cui finanze spesso non sono ben separate da quelle delle famiglie dei piccoli imprenditori) sono relativamente poco capitalizzate.
Il mondo bancario italiano, che sarebbe arduo accusare di un forte profilo politico, almeno in anni recenti, si trova quindi sottoposto al tiro incrociato di tre diversi soggetti. In primo luogo un pubblico di risparmiatori, tradizionalmente abituati a un interesse reale relativamente elevato, derivante da impieghi considerati piuttosto sicuri: in secondo luogo le imprese con la loro richiesta che le banche siano «buone» nei loro riguardi per compensare un mondo che è diventato «cattivo»; e infine il governo che vorrebbe che le banche diventassero prima di tutto lo strumento di una politica economica di stabilizzazione che evitasse il collasso temuto di centinaia di migliaia di piccole imprese.
Per conseguenza, oggi è facile additare alla pubblica esecrazione i banchieri dal cuore di pietra, che negano o riducono il fido alle imprese in difficoltà ma domani si tratterebbero in maniera molto più dura gli stessi banchieri se, essendo diventati troppo teneri, avessero perduto i soldi loro affidati dalla gente. In una situazione di rischio in aumento, trasferire - per di più a parità di costo - una parte di questo rischio dalle imprese alle banche con finanziamenti «di buon cuore» può compromettere una struttura bancaria complessivamente molto sana che rappresenta uno dei principali punti di forza del Paese per sostenere imprese sovente piuttosto malate.
Se infatti si eccettuano alcuni casi singoli e importanti, sui quali dovrebbe essere fatta maggior luce, il sistema bancario italiano è soprattutto una (complessivamente buona) cinghia di trasmissione del risparmio delle famiglie, che viene indirizzato verso le imprese, lo Stato e i governi locali. Una cinghia di trasmissione non può generare impulsi duraturi di ripresa, il suo compito è quello di trasmetterli in modo rapido ed efficace. La sua efficienza può naturalmente migliorare ma gli impulsi devono nascere altrove.
Un’azione determinata del governo per mettere a posto la propria tesoreria e pagare con maggiore celerità i propri fornitori avrebbe probabilmente effetti più incisivi di un credito che, magari con un’interpretazione «buonista» dei «Tremonti bonds», venisse distribuito a pioggia; e gli imprenditori italiani, dal canto loro, dovrebbero tener presente che la creatività, l’energia e la freschezza innovativa che li caratterizza a livello mondiale devono accompagnarsi a un altro tratto tipico delle imprese in ogni parte del mondo, ossia l’accettazione di una buona dose di rischio finanziario, senza la quale è difficile, al giorno d’oggi, fare molta strada.