Angelo D’Orsi, La Stampa, 8/9/2009, 8 settembre 2009
SE LA DEMOCRAZIA METTE IL PREFISSO POST
La democrazia è malata. O addirittura morente? A questa amarissima conclusione stanno giungendo studiosi di diversa appartenenza, dividendosi poi, naturalmente, sulla terapia, ammesso che si sia ancora in tempo. Tra le tante formule escogitate per definire la situazione, personalmente prediligo quella del politologo britannico Colin Crouch: Postdemocrazia (in un importante libro di qualche anno fa, ora ripubblicato da Laterza). Massimo Salvadori parla di un’involuzione complessiva del sistema che conduce verso Democrazie senza democrazia (in un libro edito or ora, sempre da Laterza). E la sua disamina, a carattere storico e teorico, giunge alla conclusione che, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, siamo entrati in una fase che ormai identifica un nuovo sistema politico - da lui chiamato il «secondo sistema liberaldemocratico» - prodotto di una serie di fattori diversi e convergenti: l’offensiva neoconservatrice e liberista guidata da Reagan e dalla Thatcher; l’attacco al Welfare State; la globalizzazione, con la diminuzione degli operai, l’aumento del terziario, la precarizzazione del lavoro, la perdita di peso dei sindacati; la fine della sovranità assoluta degli Stati, a vantaggio di oligarchie finanziarie e industriali; e infine, la scomparsa (o quasi) dei movimenti di sinistra radicale, portatori di alternative di sistema.
Qual è il risultato di questo processo? Un paradossale spostamento della ricchezza sociale, da chi ha di meno verso chi ha di più: insomma, i ricchi sono diventati decisamente più ricchi, mentre i poveri sono diventati decisamente più poveri. O, come si dice nel linguaggio asettico degli analisti, «si è allargata la forbice tra abbienti e meno abbienti».
Ma è solo questo il tratto identificante della malattia democratica? Certamente no, come si evince sia dal libro di Salvadori, sia da un contemporaneo lavoro di Nadia Urbinati (Lo scettro senza il re, Donzelli). Alla stessa stregua del consumo di merci, il cittadino - da attivo partecipante all’agorà dove si discute e si delibera, sulla base di una informazione almeno minima per poter schierarsi - si ritrova consumatore passivo di opzioni politiche che gli vengono servite appunto come merci sugli scaffali del mercato politico, merci rispetto alle quali egli non ha alcun potere di controllo né di indirizzo. Cade così la sostanza stessa della democrazia: un sistema in cui i cittadini ubbidiscono a leggi che hanno concorso a emanare.
Non solo: ma se la democrazia moderna si fonda sui partiti politici, nella postdemocrazia assistiamo alla loro trasformazione, da organizzazioni fondate sul volontariato degli aderenti, che credono in una certa idea politica, diffuse sul territorio, dotate di strutture permanenti, in partiti «leggeri», o addirittura «di plastica», dove soldi e visibilità sostituiscono fede e militanza: partiti che nascono e muoiono nell’espace d’un matin; partiti personali, che, come notava Bobbio, costituiscono una contraddizione in termini, in quanto il partito è un’associazione di individui per uno scopo comune.
Ma soprattutto, con lo svuotamento delle istituzioni rappresentative, emerge un nuovo potere, quello della televisione: la videocrazia - su cui Giovanni Sartori attira da tempo l’attenzione - è la forma più autentica della postdemocrazia. Perciò il controllo della tv - e dei media in genere - è diventato l’obiettivo di ogni forza politica. E qui le nostre costituzioni, nate in epoche pre-tv, o pre-Internet, non appaiono sufficientemente attrezzate per difendere il pluralismo dell’offerta e la libertà di accesso all’informazione. Quando poi un imprenditore diventa capo del governo, è chiaro che la cosa si fa inquietante. In Italia, un programma tv è chiamato per convenzione giornalistica «la terza Camera»: il suo responsabile, Bruno Vespa, conta forse quanto una delle alte cariche dello Stato, come conferma il fatto che i politici vanno da lui a fare annunci. Il famoso «patto con gli elettori» di Silvio Berlusconi, andato in scena a Porta a porta, rivelò clamorosamente la fine della democrazia, nel suo apparente aspetto democratico.
Lo iato tra forma e sostanza, tra apparenza e realtà, del resto, come mette in luce un altro libro, ricco di spigolature (Paolo Favilli, Il riformismo e il suo rovescio, Franco Angeli) è all’ordine del giorno: anzi, anche in campo politico, come in campo storiografico, si assiste a un «rovescismo» pericoloso e generatore di confusioni. Basti pensare alle giravolte della parola «riformismo», divenuta a partire dall’era craxiana una sorta di passepartout. Ma per dir che cosa? Ancora Bobbio, ricordando la sua partecipazione a un convegno di area socialista del 1985, ebbe a connettere riformismo a socialismo, e questo a giustizia sociale: «Ebbi l’impressione di aver toccato una corda il cui suono non era più gradito». Ma quella, sebbene già avviata sulla strada della «modernità», era ancora un’epoca in cui la democrazia non aveva il prefisso «post».