Massimo Mucchetti, Corriere della sera 8/9/2009, 8 settembre 2009
IL MINISTRO E I BANCHIERI
Ogni volta che Giulio Tremonti attacca i banchieri segna un goal. I banchieri formano il ceto che negli ultimi anni è stato portato a modello di virtù capitalistica. E la tecnofinanza, che hanno inventato con l’aiuto di alcuni Nobel, è stata considerata più ricca di futuro dell’industria. La crisi dimostra che quel modello non va. Quando dà voce a quella parte d’Italia che non ha mai smesso di considerare la manifattura un giacimento di cultura imprenditoriale e di moralità del lavoro, Tremonti svolge un’utile opera pedagogica. Ma quando imputa alle banche di tenere più agli azionisti che alla comunità perché, non avendo ancora sottoscritto i Tremonti bond, non concedono abbastanza credito alle imprese, il ministro dell’Economia risulta meno convincente.
La sua accusa presuppone che le banche siano un’infrastruttura del Paese e non società a scopo di lucro. Così non è da quando, nei primi anni Novanta, le aziende di credito sono state privatizzate. Certo, l’aiuto diretto e le garanzie che gli Stati hanno fornito alle banche – in Italia infinitamente meno che altrove – rendono tali imprese passibili di una vigilanza che sarebbe inutile e dannosa per altre, libere di fallire. Ma da qui a fare delle banche strumenti di politica economica del governo il passo è lungo. E nemmeno Tremonti ha mai detto di volerlo compiere.
L’adeguatezza del credito è questione più concreta. I bilanci bancari italiani non sono più floridi. Le semestrali presentano utili sostanzialmente dimezzati, dopo che nel 2008 il ritorno sul capitale era già sceso in media dal 12,8 al 4,8%. Secondo uno studio riservato di Prometeia, nel giro dei prossimi tre anni sono attese perdite su crediti per 50 miliardi. Addossarsi un simile peso non è da poco. Le memorie del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia, che il credito non lo negavano a nessuno, implorano prudenza.
Il governo, che da mesi incalza, ha avuto un atteggiamento non sempre preveggente. Prima ha trattato le banche come se grondassero quattrini, infliggendo loro, con la Robin Tax, un salasso stimabile in 1,4 miliardi l’anno. Nell’autunno della Lehman, ne ha parlato come di aziende sull’orlo del fallimento. In origine, i Tremonti bond sono stati concepiti come una ciambella di salvataggio. Il loro annuncio ha concorso a ristabilire un clima di fiducia. Che, tornando, ne ha svuotata la funzione. Questi strumenti di capitale rifioriscono ora come volano per aumentare il credito. Ma il loro costo è diventato molto alto con i tassi a breve che sono vicini allo zero e consentono alle banche di finanziarsi altrimenti. E di evitare di doverli convertire in azioni, con la conseguenza di trovarsi lo Stato in casa, se non riuscissero a rimborsarli il 30 giugno 2013.
Probabilmente, sarebbe più efficace consentire alle banche di fare pulizia aumentando l’esenzione fiscale sugli accantonamenti a fondi rischi, ridotta ormai allo 0,30% degli impieghi. Ma i banchieri dovrebbero meritarselo non tanto aumentando la quantità del credito, la cui domanda cala durante le recessioni, ma liberando le imprese dall’incubo del rimborso a scadenza ravvicinata. Con il consolidamento dei debiti ormai diffuso, ma anche con nuovi strumenti – a metà strada tra il capitale di rischio e il credito ordinario – validi anche per quando tornerà il sereno. I risparmiatori, che la politica monetaria penalizza, e le imprese, che restano l’architrave di tutto, hanno ragione a chiedere di più.