Daniela Minerva e Mariaveronica Orrigoni, L’Espresso, 10 settembre 2009, 10 settembre 2009
DANIELA MINERVA E MARIAVERONICA ORRIGONI PER L’ESPRESSO 10 SETTEMBRE 2009
La scuola è da rifare Proteste, polemiche e scioperi. L’era Gelmini si apre nel caos. Eppure statistiche e storie dimostrano che il degrado si può evitare. Con prof più giovani, nuove tecnologie e meno noia
Con gli insegnanti di Benevento abbarbicati sul punto più alto della loro città perché, dicono: "dal basso nessuno nessuno ci ascolta"; e mille altre iniziative sempre più fantasiose studiate dai precari lasciati a terra dai decreti Gelmini (vedi box qui accanto). Con il virus dell’influenza A che aleggia come un corvo sulle classi e le pretese della Lega sul dialetto si apre a giorni il primo anno scolastico dell’era Gelmini-Tremonti. Con la ciliegina sulla torta delle discussioni su quanto deve pesare l’apprendimento della religione nella valutazione degli alunni che s’intrecciano nella questione dei rapporti tra il Vaticano e il governo: ai primi di agosto una sentenza del Tar del Lazio ha disposto che i docenti di religione non hanno voce in capitolo nella cosiddetta determinazione dei crediti scolastici, il ministero ha impugnato la sentenza, ma, per tagliar corto sta studiando una soluzione definitiva e ha richiesto al Consiglio di Stato un parere sulla possibilità di attribuire "piena e completa pari dignità" al docente di religione che potrebbe dare i voti in decimi (anziché il giudizio) di modo che l’apprendimento della parola di Dio potrebbe fare media a tutti gli effetti. Con l’inevitabile coda di polemiche, turbamenti.
E caos, perché è questo ciò che ci si aspetta nell’anno che avrebbe dovuto marcare un ritorno alla disciplina, all’ordine, al merito: le tre parole chiave del dicastero Gelmini. Sostituite nei fatti da disordine, insegnanti mancanti e alunni lasciati a sé stessi, tagli ai fondi ordinari che impediranno ai presidi qualunque iniziativa. Professori, dirigenti scolastici e esperti di didattica si disperano perché è ovvio che al governo Berlusconi la scuola interessa solo come potenziale voce di risparmio. mandata al macero. Mentre poche e precise azioni basterebbero: cinque mosse. Semplici, precise, definite e, quel che più stupisce, condivise dalla maggior parte degli addetti ai lavori. Basterebbero a trasformare la scuola italiana, a portare l’istruzione degli adolescenti a un livello europeo e, magari, a far loro tornare la voglia di entrare in classe. Perché il ritardo complessivo della scuola italiana non è un handicap a cui possiamo rassegnarci, commenta Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Giovanni Agnelli, che ha appena redatto il ’Rapporto sulla scuola in Italia 2009’: "Si traduce in un progressivo arretramento del paese. E costituisce un vero pericolo per la nostra società. Invece lo spazio e il modo per rovesciarne il declino c’è. Non è troppo tardi, basta fare rapidamente le scelte giuste".
La Fondazione Agnelli, l’Ocse, la società di consulenze Mc Kinsey, gli esperti di didattica e gli studiosi di cognitivismo hanno man mano identificato con grande chiarezza passi molto concreti capaci di riallineare la scuola con la modernità: mettere mano alla carriera degli insegnanti cominciando con l’abolire le graduatorie e premiare chi è più motivato e fa bene; cambiare il volto della scuola media, il vero buco nero dell’istruzione italiana, puntando su italiano, materie scientifiche e lingue straniere; rimescolare, quando non abbattendo, le discipline partendo dalle opportunità che offrono le nuove tecnologie per sostituire al nozionismo dei vecchi tempi non il nulla dell’oggi, ma il problem solving, l’abitudine al ragionamento; personalizzare l’insegnamento tracciando curricoli ad personam. Insomma, tutto il contrario di quanto prevede il ministero di Maria Stella Gelmini che toglie soldi ai presidi azzerando di fatto i benefici dell’autonomia scolastica, rimescola le ore e taglia gli insegnanti, cambia tutto per non cambiare niente tenendosi aggrappata alla riforma Gentile che dà al centro-destra l’illusione di seppellire l’odiato ’68. Nei fatti, però, i cambiamenti introdotti, a sentire gli addetti ai lavori, cristallizzano la scuola com’è, proprio a cominciare dalla verbosità ideologica postsessantottina. Mentre adeguarla alle esigenze della modernità non sarebbe poi difficile.
Perché quel che è certo è che le migliaia di Giulie, Tommasi, Lorenzi, Francesche, di 12, 15, 17 anni, quando, tra qualche giorno, si troveranno di nuovo con lo zaino in spalla sull’autobus delle otto si sentiranno su un’astronave, diretti oltre Marte, su quel pianeta-bolla astruso e incomprensibile dove, per la maggior parte di loro, si parla una lingua aliena. E se i prof saranno sui tetti questo gli apparirà come l’ennesima bizzarria del pianeta-bolla, qualcosa che ha poco a che fare con la loro vita.
Che oggi, come non mai, sia enorme il gap tra i ragazzi che frequentano la scuola e gli adulti che la gestiscono è un fatto che tutti gli esperti rilevano. Ed è la ragione per la quale, a fronte di un certo numero di ragazzi che si adattano alla bolla e hanno risultati soddisfacenti, i più faticano e trascinano gli anni senza trarne vantaggio. E accade che nelle rilevazioni internazionali gli studenti italiani restino inequivocabilmente indietro rispetto a quelli degli altri paesi sviluppati (vedi tabella di pag. 64). Mentre, grazie alla legge sull’autonomia degli istituti voluta dal governo Prodi, molte scuole hanno ribaltato il vecchiume e adeguato didattica e materie alle esigenze della modernità. Questo è accaduto, per lo più, in regioni leader come il Trentino Alto Adige, il Veneto, l’Emilia-Romagna, come dimostrano i risultati delle rilevazioni Ocse che raccontano di aree del paese perfettamente allineate con i migliori d’Europa, la Finlandia (capolista), l’Olanda, la Svizzera e la Danimarca, anche se istituti capaci di preparare degnamente i giovani ci sono a macchia di leopardo in tutto il paese, come dimostrano le rilevazioni dell’Ivalsi, l’istituto del ministero incaricato di valutare le scuole italiane. E chi pensa che il buono si trovi soltanto nei blasonati superlicei dove studia la classe dirigente si sbaglia: un’indagine della Fondazione Agnelli è andata a vedere come se la cavano al primo anno di università tutti gli studenti del Piemonte e ha scoperto l’ottima performance delle scuole di provincia, Cuneo in particolare, rispetto a quelle cittadine; e l’ottimo livello di molti istituti tecnici che vanno meglio dei licei di città (chi volesse vedere tutta la graduatoria degli istituti piemontesi la trova su www.fondazioneagnelli.it).
La grande disparità tra una scuola e l’altra indica senz’altro che l’autonomia è servita almeno ad alcuni presidi, certo i migliori capaci di rimboccarsi le maniche e fare alcune semplici quanto utili modifiche. Indica che un’altra scuola è possibile.
TWITTERIAMO LA PROF
Loro, gli studenti, sono nativi digitali (ovvero nati con la tastiera in mano), gli insegnanti tra i trenta e i quarant’anni, la minoranza, sono immigrati digitali (ovvero hanno appreso il web-world già da adulti), gli altri, la maggioranza, sono al più fruitori digitali (ovvero usano con cautela e fatica ciò che il web offre per facilitargli la vita). Basta questa schematica distinzione, unita alla realtà dell’età media degli insegnanti italiani (vedi grafico di pag. 67), che alle superiori va oltre i 51 anni, per fotografare la causa prima del gap tra la scuola e gli studenti. Perché essere o meno ’digitali’ non è un nuovo gioco, ma il modo in cui funziona il cervello. E a chi fa spallucce dicendo che non si può passare la vita giocando al computer ma bisogna anche imparare, tutti gli addetti ai lavori rispondono che le nuove tecnologie sono proprio il più prezioso strumento per imparare. Nel senso moderno del termine, che significa saper cercare le informazioni, distinguere le bufale da quelle certificate, creare scenari multisciplinari e risolvere problemi. Le statistiche dell’Ocse che ci bollano come i somari del mondo industrializzato misurano proprio questo. Perché, conclude Gavosto: "Ovvio che un bagaglio di nozioni ce lo dobbiamo assicurare, ma la vera novità è imparare a essere trasversali. I professori, però, per lo più sono nati col nozionismo e a quello credono fino in fondo".
Già, la vecchia prof innamorata di Cicerone e disgustata da Twitter. Magari persona degnissima, ma non è più sufficiente. Va affiancata da una generazione di digitali, almeno immigrati. "Bisogna trovare il modo di abbassare l’età media degli insegnanti: secondo le nostre stime 300 mila andranno in pensione nei prossimi 10 anni. Ma in lista d’attesa ci sono 240 mila precari di formazione tradizionale che hanno più di 40 anni e aspettano da dieci. Poi c’è un gruppo di trentenni che vorrebbe entrare nelle scuole e non sa nemmeno come fare. Dobbiamo puntare su di loro per rinnovare il corpo docente: fare un salto generazionale e far entrare ragazzi sotto i 30 abolendo le graduatorie".
Sulla carta nessuna obiezione, ma che farne di quei 240 mila in attesa? A dire il vero lo strumento c’è già, ed è l’autonomia scolastica che dà ampia discrezionalità ai presidi di organizzare la vita dell’istituto. Basterebbe liberalizzare anche l’assunzione dei docenti. "Bisogna fare un albo nel quale entra sia chi ha appena terminato gli studi sia chi ha fatto esperienze, e la scelta la devono fare i dirigenti scolastici. Il preside che vuole attivare un insegnamento legato alle nuove tecnologie deve poter scegliere un giovane o chi gli dà maggiori garanzie, non può essere obbligato a prendere il primo in fila, magari un grecista 45enne che detesta i computer", stigmatizza Gavosto. Che dice di essere per la politica dei piccoli passi e immagina una scuola dove il nuovo convive con l’antica impostazione disciplinare, insomma dove vecchi professori conducono al meglio i giovani attraverso i curricula tradizionali, ma dove altri scompaginano le carte, rompono le discipline e insegnano a ragionare muovendosi su più piani.
In concreto questo significa, ad esempio, studiare la fisica o la biologia in inglese come già si fa nelle scuole che adottano il progetto Clil (Content and Language Integrated Learning). "Si tratta di usare la lingua per l’apprendimento di un’altra disciplina" spiega Silvia Minardi, presidente dell’associazione di insegnanti Led (Lingua e nuova didattica): "In Europa è molto diffuso, in Italia si scontra con la difficoltà di reperire insegnanti delle diverse discipline che abbiano la competenza linguistica per farlo. Quando il ministero ci esorta a estendere questo programma bluffa perché nei fatti è quasi impossibile".
Diverso sarebbe se un preside che vuole attivare, ad esempio, un corso di fisica in inglese in un liceo scientifico potesse scegliersi l’insegnante in grado di farlo, figura professionale rarissima tra gli agé ma non così rara tra i giovani laureati.
Ma c’è di più, rompere le discipline significa entrare con tutte le scarpe nell’addestramento al problem solving. Ad esempio, continua Gavosto: "Studiando la caduta dell’impero romano come farebbe un economista, insieme a un demografo, insieme a un geo-ecologo e a uno studioso di storia delle malattie; lavorando su tante fonti, reperite sui libri o su Google in inglese. E persino con i giochi di ruolo, magari in comunicazione con una classe di Lille che sta facendo lo stesso lavoro". Fantasie? Niente affatto.
NATIVI DIGITALI
La bella principessa è prigioniera nel castello. Ovvio che, come in tutti i videogiochi che si rispettino, debba arrivare il principe a liberarla sconfiggendo il drago dalle lingue di fuoco. Ma per farlo non basta la destrezza di mano alla consolle, bisogna cliccare sulla frazione giusta, a soluzione di un piccolo rebus matematico. E a ogni frazione corrisponde una porta. Alla fine, o impari le frazioni o finisci in bocca al drago. Raccontato così sembra un giochetto, ma il videogioco della principessa e del drago è uno strumento didattico raffinato elaborato, tra molti, dai maggiori esperti italiani di matematica e cognitivismo. E ci sono persino delle scuole in Italia che lo usano per far capire ai ragazzini la non semplice faccenda delle frazioni. Riuscendoci. Perché videogiochi, libri multimediali, cd rom e approfondimenti interattivi sono gli strumenti dell’apprendimento moderno e possibile. Quando in Gran Bretagna lessero nelle statistiche dell’Ocse che gli studenti del regno si piazzavano ben dopo i finlandesi, gli asiatici o gli scandinavi, il governo Blair mise mano immediatamente al gap e stanziò due miliardi di sterline per ribaltare la situazione. Come? Wifi, computer e lavagne multimediali ovunque, centinaia di progetti destinati a rendere l’ambiente il più interattivo possibile, garantendo quella flessibilità necessaria a far sì che sia gli insegnanti, sia la nuova generazione di quindicenni inglesi siano spinti a dare il massimo. Questa rivoluzione, anche dello spazio-classe ha innescato un processo virtuoso. Possibile in Italia?
A sentire Francesco Antinucci, direttore della sezione processi cognitivi e nuove tecnologie dell’Istituto di Psicologia del Cnr e grande esperto di didattica: "Un computer in ogni banco di per sé non porterebbe a niente. Finirebbero con l’usare lo schermo e la tastiera al posto della matita e della penna".
Antonucci la scuola italiana la conosce e sono anni che prova a scrostare i professori. Per ora c’è riuscito soltanto nelle scuole trentine col programma Dant (Didattica assistita dalle nuove tecnologie), che potrebbe essere trasferito senza alcuna difficoltà in tutti gli istituti italiani che volessero darsi da fare: schemi semplici, basati su un metodo di apprendimento simile a quello che i nativi digitali usano ormai quotidianamente per rapportarsi con ciò che li circonda. "Abbiamo creato di prodotti per tutte le età e le classi" spiega Antinucci: "Dai conigli che con i loro cappelli magici illustravano le leggi della fisica ai laboratori di scienze interattivi, sono stati tutti un successo". Poi il pifferaio magico per l’educazione musicale a riconoscere i diversi strumenti. E la geografia dell’Europa senza la grande carta geografica appesa al murro scrostato che sta lì dai tempi dei Patti di Roma, ma con un videogioco che ci fa entrare virtualmente in un’agenzia di viaggi, per costruire manualmente la geografia dei luoghi trascinando le città, i fiumi e le montagne al posto giusto, e ricreare sul computer il giusto aspetto dei Paesi che ci circondano.
Antonucci è un visionario con le mani nella realtà, pensa che vadano aboliti programmi e divisione in materia. Racconta che l’esperienza più bella è stata quella di quando hanno chiesto ai ragazzi su cosa volevano lavorare: il nucleare, hanno risposto. Cosa c’è di meglio per fare fisica, biologia, economia, educazione civica, storia... fuori dal programma ma capendo un problema reale e contemporaneamente imparando come si ragiona nel Terzo millennio.
Il ministero invece pensa di diventare digitale con una circolare approvata nel 2008 che stabilisce: dall’anno scolastico 2010/11 tutti i libri di testo adottati dovranno essere disponibili online, scaricabili da internet o avere delle parti consultabili solo tramite pc. Peccato che però, guardando agli ultimi dati Istat, si scopre che il 40 per cento degli adolescenti italiani non ha internet a casa, e il 25 per cento non possiede neanche un computer. Finiranno con lo scaricarsi i Pdf e stamparseli, magari risparmiando sui libri; ma cosa c’è di digitale?
Di fatto, spiega Giuseppe Ferrari, direttore editoriale della Zanichelli, già molti libri scolastici hanno un Cd che contiene un’interfaccia multimediale dei programmi: esercizi risolvibili col click, simulazioni di problemi matematici, conversazioni e animazioni per le lingue. già qualcosa, ma non ha niente a che fare con la rivoluzione di Antonucci.
D’altra parte, sentite cosa racconta lo stesso Ferrari: "Visto il successo di un particolare manuale di inglese per le scuole medie, avevamo creato un video con una storia girata a Londra e pensato per offrire uno strumento di immersione nel linguaggio con una progressione di elementi linguistici introdotti. Gli insegnanti lo hanno apprezzato, ma ci hanno confessato di averlo usato pochissimo: nelle aule mancano le tv, quindi bisognava andare nella sala video, aspettare il bidello che trovasse le chiave e aprisse la porta... e l’ora se ne andava".
LA PALUDE
vero, il bidello che non vuole spostare la tv, le professoresse ingrigite, i presidi con la circolare in mano sono la realtà della maggior parte delle scuole. Ma anche la scuola italiana può cambiare e la riforma delle scuole elementari lo ha dimostrato: oggi alla fine del primo ciclo scolastico, i piccoli italiani si piazzano al settimo posto nel mondo, comprendono bene l’italiano, sanno risolvere i problemi matematici e mettono le mani con expertise nelle scienze naturali. Poi, il disastro: a 15 anni sprofondano. Perché? Cosa succede negli anni delle medie inferiore? Perché i bambini entrano motivati e curiosi ed escono, per lo più, somari e svogliati. "Perché le scuole medie non sono né carne né pesce, perché la qualità degli insegnanti è mediamente più bassa, perché i programmi sono quanto di più lontano da questi adolescenti, i veri nativi digitali", commenta Gavosto. E su come riformare la scuola media, i pedagogisti si sono sbizzarriti: abolirla allungando le primarie come fanno in Finlandia, mantenerle e allungarle un po’, e chi più ne ha più ne metta. Ma in realtà, commenta Sofia Toselli, presidente dell’associazione di insegnanti Cidi: "Bisogna ribaltare tutto l’impianto culturale e decidere cosa è indispensabile che i giovani sappiano usciti dalla scuola dell’obbligo".
Risolvere i problemi, saper vivere la modernità: due cose indispensabili che si imparano con la cultura scientifica, la vera "emergenza non più procrastinabile", afferma Gavosto. I bambini escono dalle elementari da piccoli scienziati e nelle classifiche del Rapporto Timss (Trends in International Mathematics and Science Study) "ottengono risultati superiori alla media internazionale sia in matematica che in scienze", si legge nel rapporto. Poi, anche in queste classifiche, scivolano in basso e in terza media "ottengono risultati inferiori alla media Timss". E gli esperti di didattica delle scienze concordano sul fatto che questo accade perché alle elementari la matematica e le scienze non sono ’discipline’ fatte di regole e definizioni, ma problemi di vita vissuta. Che poi si trasformano, con l’ingresso alle medie, in grafici, formule, descrizioni astratte: non lo fa più nessuno nel mondo; solo noi e per questo restiamo indietro (vedi box di pag. 64). Lo stesso vale per la lingua straniera. Giacché, aggiunge Silvia Minardi: "Alle media si insegna la grammatica, si seguono i libri di testo, si lavora con i vocaboli. Tutti errori".
La faccenda dell’insegnamento delle lingue ha del grottesco: tutti gli esperti sanno come si dovrebbe fare e ci sono gli esempi stranieri di quali sono i metodi giusti, ma quasi nessuno lo fa. "Innanzitutto bisogna parlargli sempre in lingua, cosa che molti insegnanti non sono in grado di fare. Seguire il libro e insegnare la grammatica significa, invece, fargli apprendere regole di un sistema (linguistico) che non frequentano". E quindi non lo imparano visto che nel gennaio scorso gli studenti col debito in inglese superavano quelli col debito in matematica: magari erano gli stessi ragazzi che usano la lingua su internet o per ascoltare la musica. "I miei colleghi si affannano con le regole grammaticali e magari si crucciano perché non fanno in tempo a fare i verbi irregolari, poi scopriamo che gli studenti li usano regolarmente su internet. I ragazzi imparano molte cose in contesti comunicativi che non sono la classe; e noi dobbiamo imparare a sfruttarli. Dobbiamo partire da quello che loro amano, che fanno nella loro vita". Insomma, invece che incattivirsi sul genitivo sassone forse conviene portare in classe fotocopie di giornali col loro gossip preferito, chiedergli su quale musicista vogliono informazioni e cercarle insieme su internet in inglese, fargli raccontare storielle. Ma di certo, conclude Minardi: " più facile aprire il libro di grammatica e spiegare i verbi".
CHI ME LO FA FARE
Perché la nota più dolente della scuola italiana sono gli insegnanti: è inutile progettare videogiochi, immaginare lezioni in lingua, scompaginare le discipline se loro non ne hanno nessuna voglia. E la conferma viene dall’analisi dei sistemi scolari di quelle nazioni che stanno in cima alle classifiche dell’Ocse: in Finlandia, in Corea, in Canada, gli insegnanti sono ben pagati e molto motivati perché fare il professore è un ruolo di grande prestigio. Non solo: due studi fatti rispettivamente nel Tennessee e a Dallas hanno dimostrato che se a un gruppo di studenti di media qualità dai i cinque migliori professori della scuola, quegli alunni si piazzeranno in cima alle classifiche dell’istituto; se, invece, a un gruppo analogo di allievi dai i cinque peggiori insegnanti della scuola, i ragazzi finiranno in fondo alla classifica.
Così la società di consulenze McKinsey, in un rapporto dal significativo titolo ’In che modo i migliori sistemi scolastici del mondo sono arrivati al top’, raccomanda tre azioni concrete: assumere i migliori insegnanti, trarre il meglio da loro, e intervenire quando uno studente è in difficoltà. Ma, come sono i professori italiani? Certamente tanti, 766.119 lo scorso anno scolastico, certamente pagati meno che nei paesi che vantano buone performance, ma soprattutto frustrati.
"Sono persone straordinariamente motivate: più del 90 per cento dei nostri intervistati non vorrebbe fare un altro mestiere", spiega Gavosto: "Ma l’organizzazione del sistema non premia chi è più capace e questo genera pericolose frustrazioni". il tema più volte trattato della carriera degli insegnanti, che non esiste: una volta passati in ruolo conta solo l’anzianità. L’allora ministro Luigi Berlinguer, col primo governo Prodi, ci provò a introdurre un sistema di valutazione del lavoro dei docenti a cui far corrispondere scalini di retribuzione, ma la reazione dei sindacati fu così dura che il ministro ci ha rimesso la poltrona (sostituito da Tullio De Mauro nel seguente governo D’Alema).
La Fondazione Agnelli, l’Ocse, la società di consulenze Mc Kinsey, gli esperti di didattica e gli studiosi di cognitivismo hanno man mano identificato con grande chiarezza passi molto concreti capaci di riallineare la scuola con la modernità: mettere mano alla carriera degli insegnanti cominciando con l’abolire le graduatorie e premiare chi è più motivato e fa bene; cambiare il volto della scuola media, il vero buco nero dell’istruzione italiana, puntando su italiano, materie scientifiche e lingue straniere; rimescolare, quando non abbattendo, le discipline partendo dalle opportunità che offrono le nuove tecnologie per sostituire al nozionismo dei vecchi tempi non il nulla dell’oggi, ma il problem solving, l’abitudine al ragionamento; personalizzare l’insegnamento tracciando curricoli ad personam. Insomma, tutto il contrario di quanto prevede il ministero di Maria Stella Gelmini che toglie soldi ai presidi azzerando di fatto i benefici dell’autonomia scolastica, rimescola le ore e taglia gli insegnanti, cambia tutto per non cambiare niente tenendosi aggrappata alla riforma Gentile che dà al centro-destra l’illusione di seppellire l’odiato ’68. Nei fatti, però, i cambiamenti introdotti, a sentire gli addetti ai lavori, cristallizzano la scuola com’è, proprio a cominciare dalla verbosità ideologica postsessantottina. Mentre adeguarla alle esigenze della modernità non sarebbe poi difficile.
Perché quel che è certo è che le migliaia di Giulie, Tommasi, Lorenzi, Francesche, di 12, 15, 17 anni, quando, tra qualche giorno, si troveranno di nuovo con lo zaino in spalla sull’autobus delle otto si sentiranno su un’astronave, diretti oltre Marte, su quel pianeta-bolla astruso e incomprensibile dove, per la maggior parte di loro, si parla una lingua aliena. E se i prof saranno sui tetti questo gli apparirà come l’ennesima bizzarria del pianeta-bolla, qualcosa che ha poco a che fare con la loro vita.
Eppure oggi tutti auspicano che quei gradini salariali vengano istituiti: per la Fondazione Agnelli è una precondizione per poter affrontare qualunque discorso sulla scuola. E anche gli insegnanti sono possibilisti. "In molti siamo convinti che si debba riconoscere economicamente chi si migliora, studia, si impegna. E questo motiverebbe i colleghi a dare il meglio. Ma certamente non ha senso parlare di valutazione", afferma Sofia Toselli, presidente del Cidi.
No, questo no: accettano di essere sottopagati, di essere incolpati del disastro nazionale, di essere sbeffeggiati dagli studenti, ma non vogliono, per nessuna ragione, essere valutati. "Come si fa a capire chi insegna meglio? impossibile", chiude Toselli.
Eppure ogni cambiamento nella scuola non può prescindere dalla qualità degli insegnanti e, commenta Maria Teresa Siniscalco, autrice del volume ’La valutazione della scuola italiana’ edito da Zanichelli: "Bisogna dare ai dirigenti degli strumenti per valorizzare i più bravi. Ma anche selezionarli all’ingresso della carriera, come fanno in Finlandia o nelle altre nazioni al top". Nel paese scandinavo addirittura la selezione avviene prima dell’entrata all’università: i candidati vengono selezionati sulla base del curriculum, di un test di ammissione e di un colloquio che, riassume Siniscalco: "Scopre se sono persone che hanno voglia di impegnarsi per tutta la vita".
Se non fosse che tra i professori d’Italia, commenta Silvia Minardi: "prevale il ’chi me lo fa fare. E i più, quando gli proponi di cambiare qualcosa dicono: ’ho sempre insegnato in questo modo. Perché mi viene chiesto di cambiare?’". Semplice: perché il mondo è cambiato.