Paolo Manzo, La stampa 7/9/2009, 7 settembre 2009
A CIUDAD JUAREZ DOVE IL MESSIMO MUORE
Qui arrivano gli uragani come Jimena e spazzano via tutto. Poi, se mai qualcosa resta in piedi, ci pensano i narcos a fare piazza pulita». José Almoral, 50 anni che sembrano cento, racconta il suo Messico da uno dei tanti caffè cadenti di Ciudad Juárez, al confine con gli Stati Uniti, proprio di fronte al Texas. José è muratore tuttofare, perché c’è la crisi e bisogna adattarsi. così pessimista che si è convinto che Jimena sia diventato un uragano mentre in realtà la perturbazione non è riuscita a meritarsi i gradi. Tutti, nel Sud della penisola della Bassa California, la aspettavano come l’inizio della fine. E invece non è stata un granché. Depressione tropicale, decine di case distrutte, un morto.
Ma la devastazione palpabile in Messico non arriva dalla natura, José lo sa bene. Basta che si guardi intorno. La città in cui ogni mattina si alza, soffre e si diverte «è un tempio alle forze oscure che agitano l’uomo» come lui stesso dice enfaticamente, citando uno scrittore di cui s’è scordato il nome. Vive infatti nella «città più pericolosa del mondo», come ha recentemente sancito una delle più importanti ong del paese, il «Citizen’s Council for Public Security», che stilando la lista nera delle metropoli più violente non ha esitato a riconoscere il primato a Ciudad Juárez. Centotrenta morti ogni 100 mila abitanti nel solo 2008, questo il suo record, e se si pensa che di abitanti ne conta 1,4 milioni la cifra - 1820 cadaveri - fa davvero impressione.
Più pericolosa di Kabul e di Baghdad, Ciudad Juárez ha finito per diventare la cartolina nera di un Paese paurosamente in bilico tra il bene e il male, l’onestà e la corruzione. E non è solo la questione delle donne ammazzate a rendere la città famigerata in tutto il mondo, due ragazze in media al mese strangolate o mutilate, torturate, violentate. Dietro Ciudad Juárez, come un burattinaio che muove fili invisibili, c’è il grande business che sta stravolgendo l’identità e il futuro del Messico: il narcotraffico, con le violentissime lotte tra i cartelli per la conquista del mercato e del potere. Una guerra che dal primo gennaio del 2008 ha prodotto più di 10 mila morti, malgrado il massiccio dispiegamento di 36 mila uomini, tra polizia e militari. A Ciudad Juárez le cliniche private rifiutano ormai da tempo chi arriva con qualche proiettile in corpo. Sanno infatti che i narcos sono soliti sparare il colpo finale proprio sul letto d’ospedale, com’è accaduto qualche giorno fa, quando un regolamento di conti ha coinvolto alcuni drogati in una clinica per disintossicazione: diciasette persone sono state giustiziati in corsia.
Francisco Barrio Terrazas, l’ex governatore dello Stato di Chihuahua, in cui si trova la città, e braccio destro di Vicente Fox, dice incredibilmente che a Ciudad Juárez è «tutto tranquillo». Ma della politica in Messico è meglio non fidarsi. José Fuentes Esperón, candidato alle prossime municipali, per esempio, è stato sgozzato l’altro ieri insieme alla moglie e ai due figli nella sua casa a Villahermosa, nello Stato di Tabasco. La sua candidatura era stata vista dai cartelli della droga come una minaccia. Esperón era stato rettore dell’Università tecnologica di Tabasco, una persona perbene. Una dote che in Messico, di questi tempi, può costare la vita. Lo ha imparato sulla propria pelle anche José Antonio Romero Vázquez, capo della polizia di Veracruz, importante porto del paese a 300 km da Città del Messico, punto chiave delle rotte della droga nel levante, massacrato insieme a moglie e figli lo scorso luglio. «Qui l’onestà è una malattia mortale», dice un agente che vuole restare anonimo.
Tutte risposte dirette alla politica di guerra al narcotraffico dichiarata dal presidente messicano Felipe Calderón nel 2006. Solo a Ciudad Juárez, assurta a vetrina della guerra alla droga, sono stati inviati nel 2008 diecimila poliziotti. La violenza in realtà è diminuita solo per un breve lasso di tempo, poi è ripresa più forte di prima. L’attacco militare frontale di Calderón sembra essere soprattutto una grande mossa mediatica internazionale. «La caratteristica paramilitare che la criminalità sta assumendo - spiega Carlos Flores, esperto di narcotraffico presso il Centro messicano di Investigazione e Antropologia sociale - fa sì che vengano coinvolte sempre più le forze militari, in un compito per il quale non sono però qualificate e dove il rischio di corruzione è altissimo».
Basti pensare agli Zetas, un gruppo di sicari creato alla fine degli Anni 90 proprio da alcuni ex-militari di alto grado, attirati dalle somme astronomiche collegate al business della droga. Oggi sono associati al Cartello del Golfo, uno dei sei gruppi più importanti che gestiscono il mercato degli stupefacenti. Perfettamente organizzati, si muovono parallelamente alle operazioni della polizia. L’omicidio del capo della polizia Romero Vázquez, per esempio, è stato pianificato lo stesso giorno in cui le autorità federali avevano annunciato la cattura di sei membri del «Cartello della Famiglia».