Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  settembre 07 Lunedì calendario

ADDIO PAZIENTI ARTIGIANI: LE PIANTE DIVENTANO USA E GETTA


Come il camoscio d´Abruzzo, il cervo sardo, l´orso bruno marsicano. Il giardiniere italiano è una razza in via d´estinzione, minacciata dalla crisi della cultura del paesaggio e da un imbarbarimento collettivo che premia solo il guadagno facile, l´imprenditoria, il fast gardening. Di giardinieri, in Italia, restano poche centinaia di esemplari. Un migliaio, a essere ottimisti. Artigiani che conservano il sapere, la passione e la pazienza di veder crescere le proprie piante, seguirne il percorso spontaneo, attendere che le stagioni facciano il loro corso naturale. Gli altri? Pericolosi dilettanti o, peggio, commercianti ossessionati dalle possibilità offerte dal mercato globale: piante che fioriscono quando il cliente desidera, miracolosi terricci importati dall´altro capo del mondo, effimeri esemplari esotici. Il "liberismo botanico" sta uccidendo un mestiere e una delle grandi tradizioni di questo Paese.

L´allarme sale dal Festival della Mente di Sarzana, in un teatro stipato di pubblico corso ad ascoltare Antonio Perazzi, progettista di giardini e del paesaggio, docente di Architettura ambientale al Politecnico di Milano. Un professionista che ha firmato opere pubbliche e private un po´ in tutto il mondo. E che denuncia «gli effetti collaterali dell´imbarbarimento italiano. Collaterali e inevitabili in un Paese dove l´importante è avere tutto, in fretta, subito. Dove non c´è tempo di aspettare, di veder crescere. Di crescere insieme». Non c´è più tempo per seminare in un piccolo vaso e attendere che qualcosa nasca, per raccogliere le foglie di leccio e proteggere gli agrumi, per piantare un albero e dedicarlo ai nipotini. «Ci si affida alla terra espansa, a chi ti spaccia per pianta un esemplare cresciuto all´estero in una specie di termoculla, meglio se già fiorito. Che importa se non si adatterà al nuovo ambiente, a chi interessa l´armonia naturale? E´ sufficiente fare bella figura il tempo che basta. Così trionfa il giardino usa e getta».

Il pollice italiano è istintivamente verde, il mercato continua a tirare. Le scuole italiane sfornano giardinieri, ma poi che succede? «Che la tentazione di fare l´imprenditore è più forte. Giardiniere vuole dire artigiano: serve esperienza, maturazione. Serve silenzio, calma. Meglio comprare e vendere a dieci volte il prezzo d´acquisto, dal momento che c´è sempre qualcuno disposto ad acquistare. E se poi la pianta del cliente muore, allora è perfetto: gliene venderemo un´altra». Oggi un buon capo-giardiniere può guadagnare 40-50 euro l´ora. «Però servono anni di pratica. Così, a lavorare il giardino ci pensano gli operai con conoscenze minime che spesso combinano guai. I giardinieri magari pensano a piazzare al committente un bell´impianto di irrigazione. Non so se servano nuove scuole. Di sicuro, serve una nuova struttura sociale».

Il panorama dei giardini pubblici è ancora più desolante, «perché la deresponsabilizzazione culturale arriva dall´alto. Fondi pubblici, niente. Soprattutto manca un progetto politico del territorio». Con solo una decina di aziende Doc, qualche centinaio di giardinieri, il 99 per cento del terriccio che arriva dal Nord Europa e l´ombra nera del business, non ci sono più speranze. «Al contrario. Io sono comunque ottimista. Abbiamo un clima e un patrimonio biologico straordinari. C´è un altro effetto collaterale dell´inquinamento morale e ambientale: la gente sta riscoprendo la natura, il piacere del coltivare». Ci vorrebbero buoni esempi. «Si può creare un movimento simile a quello di Slow Food. Piccoli mercati locali, lo scambio delle piante, giardinieri che si concentrano sui prodotti della loro regione e che formano altri appassionati. Comitati di quartiere che affittano aree dismesse del proprio Comune e le trasformano in giardini, in orti temporanei. In fondo, si può fare la rivoluzione anche con le piante. Lo diceva Mario Calvino. Il padre di Italo».