Arianna Finos, la Repubblica 6/9/2009, 6 settembre 2009
CANNES
Della Nuova Zelanda il resto del mondo conosce tre cose: la danza haka degli All Blacks del rugby, le procellose regate veliche e gli sfondi del Signore degli Anelli. Poi c´è Jane Campion. Con le sue lezioni di piano e le sue stelle lucenti ci ha riempito i vuoti dello stereotipo sull´isola lontana da tutto, ce ne ha offerto uno sguardo femminile e di straordinaria profondità. «Io sono neozelandese e credo che questa terra così lontana, silenziosa, mi abbia regalato una visione unica sul mondo e sull´umanità».
La Nuova Zelanda e le donne, lo sfondo e il centro del cinema della regista forse più studiata in assoluto, la più amata e controversa esploratrice della passione e della sensualità femminile. Non è un caso che il capolavoro simbolo della sua filmografia, Lezioni di piano, abbia raccontato l´esplodere della passione carnale nel mondo ottocentesco dei primi coloni dell´isola. «I protagonisti si ritrovano impreparati al potere del sesso, al contrario degli indigeni Maori, che giocano nel film un ruolo fondamentale, parlano apertamente di peni e vagine, usano simboli sessuali nella comunicazione di ogni giorno». Lo spirito anglosassone rigido e puritano si è liberato, nel film, alla naturalezza della vita aborigena. Antropologia e poesia.
Oggi, a cinquantacinque anni, Jane Campion - cittadina del mondo che vive a Sydney e a Londra - si definisce una «felice espressione della vita dopo la menopausa». I capelli, lunghi e ingrigiti, sono raccolti in una coda di cavallo bassa e spettinata. Gli occhi azzurri sono privi di trucco, il corpo matronale è avvolto in un´anonima maglietta grigia. «Non mi tingo i capelli, non faccio ritocchi estetici». Ride. «I miei rapporti con i maschi sono fortemente migliorati». Il suo nuovo progetto è il riflesso di questa fase della vita: «Sto lavorando a Top of the Lake, un giallo lungo sei ore. Il set è stato allestito in un luogo sperduto della Nuova Zelanda e la storia coinvolge sei donne che hanno trovato rifugio qui. Sono tutte in post-menopausa». Ride ancora.
Ecco, la capacità squisita di raccontare la passione di cuori giovani, romantica, travolgente, distruttiva e poetica, torna in Bright Star, la stella lucente appunto, film-ballata sul travagliato rapporto tra John Keats e Fanny Browne, che terminò con la morte prematura del giovane poeta a Roma, nel febbraio del 1921, a venticinque anni. «L´incontro con Keats è stato in parte casuale, in parte voluto. Mi sono imbattuta in una sua biografia, scritta da Andrew Motion, poi ho iniziato a fare ricerche, ho finalmente letto le sue meravigliose lettere e scoperto l´incontro con Fanny, la stella lucente che aveva cambiato la sua vita. Lui, un antiromantico che odiava le smancerie delle donne, si è lanciato in una passione che ha elevato la sua arte». Il rapporto tra i due giovani, ostacolato dalla diversità dei sogni, interrotto dalla fuga di Keats in Italia e dalla sua scomparsa, è scandito nel film dai versi delle sue poesie. «Anche se mi sono innamorata subito del progetto, dentro di me ero attraversata dai dubbi: a chi importa, oggi, della poesia? A nessuno. La gente ne è terrorizzata».
L´ultimo film ha fatto emergere le paure latenti di Jane Campion, donna sensibile la cui gioventù viene raccontata, nelle biografie, con gli aggettivi «appartata, solitaria», sottolineando una scarsa tensione alla socialità. «Ho il terrore del ridicolo e con Bright Star l´ho attraversato. Ho incontrato due giovani attori come Abbie Cornish e Ben Whishaw e li ho dovuti vestire in buffi abiti ottocenteschi, li ho fatti parlare con un linguaggio antico. Ho supplicato la costumista di essere il meno filologica possibile, tutto m´interessava fuorché l´accuratezza della ricostruzione». E poi il rischio dello stereotipo, sempre in agguato. «Keats era interessato all´essere romantico, ma nel senso che voleva vivere il mondo attraverso i sensi. Non volevo fare un film romantico perché è un intento che ti porta dritto nel cliché. Io do un significato allargato alla parola. Per me romantico è anche dividere un´emozione con un´amica, una passeggiata con mia figlia. Sono cresciuta divorando i romanzi ottocenteschi, non so perché il presente mi ha sempre interessato meno. Ricordo, alla scuola di cinema di Sydney, i colleghi maschi, tutti più stimati di me dagli insegnanti. Sognavano grandi produzioni, scene d´azione e collisioni. Le collisioni che volevo raccontare io erano di altro tipo».
Anche se Bright Star racconta la storia di Keats, la prospettiva è quella di Fanny, sfortunata eroina che s´aggiunge alla galleria di ritratti femminili di Jane Campion: la ribelle di Sweetie, la scrittrice di Un angelo alla mia tavola, l´ereditiera di Ritratto di signora, ambiziosa trasposizione del libro di Henry James. La biografia della regista ci regala molti punti in comune con le storie da lei raccontate. Jane è figlia di Edith, un´orfana che eredita una fortuna immensa dal nonno ed è allevata da tutrici e governanti, e di Richard, che a quattordici anni fugge dall´ordine religioso che gli vietava radio, libri e film. I due s´incontrano a Londra: a unirli è la passione per il teatro, che riportano in Nuova Zelanda con una compagnia shakespeariana itinerante, che si fa stanziale con l´arrivo della figliolanza.
La ricorrenza di elementi biografici nella filmografia, ecco. L´incontro tra anime gemelle (che diventa dei genitori di Flora in Lezioni di piano, di quelli di Frannie in In the Cut), la depressione della madre Edith (affrontata attraverso la scrittrice protagonista di Un angelo alla mia tavola), l´intolleranza verso sette e religioni (al centro di Holy Smoke). Il fatto di essere figlia di due professionisti dello spettacolo ha regalato a Jane Campion la voglia ribelle di occuparsi d´altro: «L´idea di seguire bovinamente il percorso dei genitori è orribile, ho cercato di evitarlo per molto tempo». Si è occupata, ragazza, di psicologia e pedagogia, poi si è laureata in antropologia all´Università di Wellington. E ha iniziato un vorticoso itinerario che l´autrice regalerà a tante protagoniste dei suoi film. Si è messa in viaggio per l´Europa, ha studiato arte a Venezia, ha trovato lavoro in una casa di pubblicità a Londra. rientrata a Sydney per conoscere la pittura, quindi è stata ammessa alla prestigiosa Australian Film Television and Radio School.
Sono ormai gli anni Ottanta e l´antropologa ha finalmente trovato la sua strada nel cinema. Alle sue prime opere viene riservata quell´accoglienza controversa che accompagnerà tutta la carriera. Alti e bassi, riconoscimenti e stroncature. Il Festival di Cannes scopre e premia il suo primo corto. Leggenda vuole che il patron Gilles Jacob abbia detto all´Australian Film Commission: «Datele tanti soldi e in due anni tornerà qui con un film». Ce ne vogliono tre, in verità, per presentare Sweetie, ferocemente stroncato. «Non vedevo l´ora di pagare il conto dell´albergo e fuggire da Cannes», racconta.
Eppure alla Croisette sarebbe tornata per entrare nella storia del cinema: prima donna a vincere la Palma d´oro. Con Lezioni di piano. Sembrava l´avvio di una carriera gloriosa e invece, con poche eccezioni, le opere che verranno saranno perlopiù contestate. Dopo i virulenti attacchi riservati al thriller erotico In the Cut, nel 2003, Jane Campion si è presa una pausa lunga sei anni. «Quel film l´ho fatto perché mi volle vedere Nicole Kidman, entusiasta del libro di Susanna Moore. Anche a me era piaciuto, ma sapevo che un film avrebbe incontrato un´opposizione feroce. Nicole, però, ne aveva comprato i diritti, continuava a ripetere che da tempo cercava qualcosa di diverso, forte, eccitante. Sentiva, a quel punto della sua carriera, la responsabilità di uscire dagli schemi. Poi ha abbandonato il progetto, di colpo. Mi ha semplicemente mollata. Aveva da risolvere questioni enormi, un divorzio traumatico, si sentiva fragile e aveva perso la voglia di essere radicale. Meg Ryan, invece, era stanca di essere considerata la fidanzata d´America e così ha preso il suo posto».
Oltre all´ostilità aperta di una larga fetta di critici, l´opera di Jane Campion ha spesso conosciuto la diffidenza dei produttori. «Nel mio Paese, il primo in cui le donne hanno acquistato il diritto al voto, l´egualitarismo è al centro della cultura nazionale e c´è una forte presenza cinematografica femminile. Ad Hollywood, che è ancora regno di produttori maschi, tutto è diverso. Crede che sia stato facile trovare i soldi per produrre Bright Star? Gli studios vogliono fare i film sull´Uomo Ragno, le commedie, certo non si interessano alla poesia. E per una donna è molto peggio. Mi sono data due spiegazioni: l´industria cinematografica non ha fiducia nelle donne e le donne pensano sia troppo difficile sacrificare la loro vita personale al mestiere. A questa considerazione io mi sono dovuta arrendere: l´ho provato sulla mia pelle, la vita vince su tutto. Due settimane dopo aver vinto la Palma d´oro a Cannes ho perso mio figlio, aveva dieci giorni. Ero completamente distrutta. Per un anno sono uscita dalla vita, niente mi toccava. Poi è stato il cinema, l´amore per il mestiere, a riportarmi a vivere. E anche il fatto che un anno dopo il lutto è nata mia figlia Alice, la mia opera migliore. Dopo un dolore come quello ti devi reinventare, sai che non crederai più alle stesse storie, guardi il mondo in modo diverso e meno meraviglioso. Sa, io sono una che ha impiegato cinque anni per capire l´importanza dell´Oscar che aveva vinto per Lezioni di piano. Non sapevo che era stato un evento straordinario, il sogno di ogni cineasta americano. Mi sembrava, anche quello, semplicemente uno stereotipo. Forse perché da neozelandese vivo davvero in un altro mondo».