Sandro Cappelletto, La Stampa 5/9/2009, 5 settembre 2009
«”Di sprezzo degno se stesso rende chi pur nell’ira la donna offende”. Si fa presto a dire che i libretti d’opera sono cattiva letteratura
«”Di sprezzo degno se stesso rende chi pur nell’ira la donna offende”. Si fa presto a dire che i libretti d’opera sono cattiva letteratura. Ma quanta capacità di delineare affetti, intenzioni, immagini, quanta sapienza nel fornire versi, rime, una metrica adatta all’estro dei compositori». Gianandrea Noseda sta studiando Traviata. Milanese del 1964, vince a trent’anni il Concorso internazionale di direzione d’orchestra di Cadaqués, vive decisivi anni di formazione a San Pietroburgo dove è invitato da Valerij Gergiev; assume la direzione dell’orchestra della Bbc di Manchester, diventa direttore artistico delle Settimane Musicali di Stresa, accetta l’offerta del Teatro Regio e ne diventa «direttore musicale». Il prossimo 14 ottobre inaugurerà con il capolavoro di Verdi la nuova stagione d’opera di Torino, dove in questi giorni è impegnato al Festival Mito: l’8 settembre dirigerà musiche di Rachmaninov con la Bbc, il 20 I pianeti di Holst con i complessi del Regio. «L’ importante - dice - è difendere sempre gli spazi per lo studio, delle partiture nuove come di quelle che già conosci e che, rivedendole, ti suggeriscono sempre altre possibilità interpretative». Nello studio di un’opera parte sempre dal libretto? «Se è il punto di partenza per i compositori, perché non può esserlo per i direttori? La musica di un’opera viene sempre suggerita dal libretto: leggendolo mi formo una mia idea drammaturgica, poi studiando la musica cerco di capire che cosa ha pensato il compositore e vedo se la sua e la mia visione collimano. La lettura, anche dei libretti meno riusciti, è fondamentale. Ne va sempre scoperta la forza drammatica». E quale l’opera, intesa come insieme di testo e musica, che più l’ha emozionata, convinta? «Il Don Carlo è stata un’esperienza indelebile. La prima impressione di potenza e perfetta coesione del tutto si è negli anni ancor più rafforzata. Nel predominio delle tinte scure Verdi è riuscito, sia nella versione francese che in quella italiana dell’opera, a tenere insieme ogni aspetto della vicenda: la violenza dei conflitti storici e politici tra Spagna e Fiandre e tra Chiesa e Stato spagnoli riverbera nella conflittualità dei rapporti personali, tra padre e figlio, tra moglie e marito. L’amore purissimo tra Carlo ed Elisabetta non si realizza proprio per l’asprezza dello scontro politico. Analoga potenza ho trovato nel Boris Godunov di Musorgskij, tratto dal dramma di Puskin. La partitura è un abisso che si spalanca davanti a te, un mondo che devi far diventare tuo». Negli anni trascorsi a San Pietroburgo ha affrontato molte opere del repertorio russo: titoli nei quali il rapporto con il testo letterario è forte, diretto. Quale il lavoro che l’ha più coinvolta? «Guerra e pace. Anche in questo caso prima di dirigere l’opera ho letto il romanzo di Tolstoj, integralmente. Non capivo il senso di quelle lunghe descrizioni delle battaglie, i dettagli perfino sulla morte dei cavalli. Ma quando, nella partitura, Prokofiev racconta le battaglie, tutti i particolari del testo rivivono in una poliritmia travolgente. Ed è il furore, il caos di queste battaglie a provocare la ferita di Andrei e poi il momento struggente della sua morte, che Natascia vuole vedere. E tutto torna». Molti musicisti sono stati anche notevoli scrittori: Debussy, Stravinskij, Schoenberg. Conosce i loro libri? «Ma non li amo troppo. Il valore del compositore è nettamente superiore a quello del letterato. Prendiamo Stravinskij: la sua prosa è frammentata, segmentata, fredda. Il meglio che si possa dire è che segue le regole della sua musica. Anche nelle lettere di Mozart, pur così importanti per conoscere il mondo, il contesto nel quale ha vissuto, non c’è quella naturalezza di emozioni presente nella musica». Lei è milanese e a Milano ha vissuto i primi anni della sua vita. Quale libro racconta davvero la sua città? «Nessun dubbio: I promessi sposi, anche se sono stato tra gli studenti che non ne hanno sopportato la lettura a scuola. Un libro che ho scoperto dopo e che non posso più dimenticare: Milano e la Lombardia, i suoi paesaggi, il cielo, i laghi, i fiumi, i paesi, i luoghi. Da piccolo mio padre mi portava, proprio dietro piazza Duomo, a vedere il forno della sommossa del pane. In quelle pagine ritrovo la milanesità che amo: esigente, fervida nel lavoro, ma capace di accogliere, di essere amichevole, bonaria, sorridente». Manzoni ha scritto «I promessi sposi» in lingua italiana e poi ha sentito il bisogno di «risciacquare i panni in Arno»: niente dialetto. E’ favorevole alla proposta, sostenuta dalla Lega Nord, di insegnare il dialetto nelle scuole? «Il dialetto è come la catalogna, l’erba matta, selvaggia che cresce nei prati e che mia madre raccoglieva per cucinarla e servirla bollita con olio e un pizzico di sale. Se li coltivi, il dialetto come la catalogna, perdono il loro sapore». Il dialetto si impara ma non si insegna? «Voler spiegare le regole del dialetto significa soffocare la sua prima natura. E invece quanto si parla male l’italiano, anche a livelli importanti. Impariamo a scriverlo e parlarlo bene, perché è questa la nostra lingua, la lingua che ci unisce». Il suo primo contatto professionale con Torino è con l’Orchestra Sinfonica della Rai, nel 1999. Oggi è il direttore principale del Teatro Regio, ha casa a Torino. Dieci anni sono sufficienti per conoscere una città? «Da milanese, per i primi tempi l’ho vista in modo sviato. Scambiando per provincialismo il suo carattere riservato, pudico». Esiste un pudore torinese? «Di quel pudore che faceva arrossire le gote di Lucia Mondella, così timida nel voler mostrare la propria bellezza. Una bella donna che non ha bisogno del make-up. Un pudore aristocratico per una città seria che non ha smarrito la gentilezza. Ma non c’è soltanto questo: Torino è più misteriosa di Milano, possiede qualcosa non dico di esoterico, ma di intrigante che trovo anche a San Pietroburgo». Quale autore la aiuta a scoprire Torino? «”Tu mi consoli, tu che mi foggiasti /quest’anima borghese e chiara e buia / dove ride e singhiozza il tuo Gianduia / che teme gli orizzonti troppo vasti...”. Sono quattro versi di Torino, una poesia di Guido Gozzano». Una scoperta recente? «Da un mese ho comprato le sue poesie. Mi sembra davvero figlio di questa città. Non pensava di essere il più grande vate della terra, ma sapeva quello che valeva». A quando Pavese? «Una lettura da adolescente che voglio riprendere adesso. Così conflittuale, introverso, segnato dal malessere: per leggerlo devi stare bene».